(si può cominciare con una nota autobiografica?)

C'era una volta in una grigia città abitata da ombre un locale piccolo piccolo che se proprio non lo andavi a cercare munito di mappa non lo trovavi neanche a piangere. Uno di quei locali dove sai troverai qualcosa di oscuro, polveroso e sotterraneo. O, mal che andasse, una coltellata. Questo locale era gestito da un tizio veramente scorbutico e burbero. A questo Tizio potevi dire davvero tutto tranne che fosse un coglione dal punto di vista musicale poiché riusciva sempre a portare in quel posto immerso nella zona industriale della città delle gran leccornie musicali. Un giorno, mentre il qui presente folletto della manodopera del cazzo stava compilando delle scartoffie per conto del Tizio, egli venne al mio tavolo domandandomi "Lo conosci Hugo Race?". Risposta affermativa, lo conoscevo come chitarrista di Nick Cave & The Bad Seeds perché?. E il Tizio fece un sorriso così obliquo che avrebbe fatto evaporare un intero monastero di suore. Da lì compresi che egli aveva capito tutto dalla vita. Pochi giorni dopo accadde il miracolo e Hugo Race e i suoi Fatalists apparvero dinnanzi a noi, il locale si riempì come mai prima d'ora, e ci inondarono di cenere e ubriachezza molesta. Non c'è lieto fine fine in questa storia, o forse è proprio questo. Quel locale non esiste più. O meglio esiste ma fa schifo. Il Tizio è partito per altri lidi. 

(ok ora basta)

Due anni dopo Hugo Race torna alle mie orecchie. E torna proprio con quei Fatalists (che, per chi proprio non lo sapesse, sono Antonio Gramentieri e Diego Sapignoli, meglio conosciuti come Sacri Cuori, altra bandicciola che mi fa tanto bene al cuore, appunto) che tanto ho amato quella sera. Torna con un nuovo disco fottuto. Perché tanta scurrilità? Perché è proprio un disco strafottuto. "We Never Had Control" è un disco tremendamente grigio. Ma cosa dico? Questo disco è uno stramaledetto posacenere emotivo. La voce stracarica di fumo di Race si incasella perfettamente sulle trame malinconiche che vanno a tessere i fatalisti. Il perno del tutto pare essere un blues marcescente che, di volta in volta, assume sfumature sempre differenti. Dove in "Dopefiends" si accoppia repentinamente con arpeggi folk rigurgitati dall'americana più debosciata, in "Ghostwriter" diventa fratello delle pulsazioni waveblues di Martin L. Gore (ai tempi dei cappelli da cowboy) e vi aggiunge liquori vocali figliocci stronzi di papà Tom (Waits) che maturano in urgenza fino a tramutarsi nelle incalzanti chitarre a mò di taglierino arruginito di "No Stereotypes", annichilendosi altrove in tristi ballate di fango e polvere, dolorose ed urticanti come la titletrack con quel suo sibilo nascosto sotto il basso di gola di mr.Race e dall'angelica (ma neanche tanto poi, facciamo di un angelo caduto in una palude) voce di sua figlia Violetta che si trascinano verso un finale senza lieto fine, come la mia storia. Perché in fondo è vero: noi non abbiamo mai avuto il controllo. 

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