Sull'importanza delle percussioni nella musica del '900 si è detto e scritto di tutto: parliamo un po' di "Erewhon", allora, una delle composizioni più celebri tra quelle scritte per un organico di soli strumenti a percussione.
Qualche numero per inquadrare la questione: sei i percussionisti in organico, guidati da un direttore; quattro le parti in cui si suddivide il pezzo, 65 minuti la durata totale. E soprattutto, 150 gli strumenti a percussione previsti in partitura: gli assoluti protagonisti di questo avventuroso pezzo, scritto nel periodo 1972-1976 dal francese Hugues Dufourt.
"Erewhon", anagramma di nowhere: a volte ascoltando questo lavoro si ha davvero l'impressione di trovarsi in una no man's land. La prima parte si scaglia subito all'attacco con la famiglia degli strumenti a pelle (o membranofoni: tra essi tamburi sahariani, bonghi, tumba) a disegnare un intricato fraseggio, punteggiato qua e là dai piatti e da altre percussioni metalliche.
Dopo questa introduzione segue l'episodio più lungo del brano, i 27 minuti della seconda parte: una fantasmagoria di suoni prodotti da strumenti metallofoni: piatti turchi e cinesi, gong tailandesi e filippini, tam-tam, lastre di metallo, per una tempesta sonora vitalissima e affascinante.
Finora l'intreccio di suoni è stato sempre molto teso, e per questo si assiste nei 18 minuti della terza parte al placarsi della furia: ovattati nella dinamica e meditativi nel lungo risuonare, strumenti intonati come vibrafono, marimba e xylorimba disegnano un quieto paesaggio che sembra fatto apposta per un po' di riposo e riflessione.
La quarta parte, piuttosto breve anch'essa come la prima, chiude il cerchio di questo pezzo ripresentando i suoni secchi delle pelli con cui il brano si era aperto.
Per certi aspetti un esempio di world music ante litteram, se non altro nella scelta coraggiosa di strumenti dai cinque continenti, "Erewhon" di Hugues Dufourt è ormai diventato un classico del suo genere.
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