Con Happiness il duo inglese degli Hurts aveva scalato il podio dei debutti pop più infelici degli ultimi tempi, una poco ammirevole conquista dettata dall'incapacità di rendere attuale, o quantomeno godibile e affascinante, il revival dell'elettronica "orchestrale", dei capelli impomatati e dello stile retrò su modello di collettivi come Eurythmics, Talk Talk, Frankie Goes To Hollywood, A-Ha e vari ancora. Di salvabile nell'esordio c'era ben poco, forse il duetto con la monumentale Kylie Minogue in Devotion, e la gran parte delle proposte non rappresentava che un insipido trito degli ormai desueti clichés eighties addensato con un atmosfera finto romantica e pseudo nostalgica moderatamente stucchevole. Ora, a meno di tre anni dalla plasticosità black&white in giacca e cravatta, gli Hurts tentano di calcare nuovamente lo scenario mainstream con un post-debutto che rovescia totalmente l'inefficacia di Happiness nel riproporre la formula fin troppo vincente del synthpop: il nuovo Exile vira repentinamente verso un miscuglio di sonorità che, pur stabilizzandosi sul reame dei sintetizzatori, strizzano l'occhiolino ad altri collettivi e modelli e, in particolar modo, scimmiottano la nuova direzione presa dai Muse con The 2nd Law. Abdicata in buona parte la melassa orchestral-artificiosa delle ballatone del primo album, il duo apre alle attuali deviazioni elettroniche e flirta dubstep, rock, industrial e techno, mantendendosi comunque sul ramoscello pop commerciale. Il risultato è degnamente positivo e garantisce finalmente a questi esodati degli Ottanta un cantuccio, ancora limitato, nel music biz saturato all'orlo dall'avanguardismo synth.
Il disco è inaugurato dai singoli Miracle e Blind, due ballate piano-elettroniche (con la seconda che presenta venature R&B e vaghe somiglianze a Halo di Beyoncé) che si mantengono sulla falsariga del debutto risultando tuttavia più intense, sincere, sontuose e ricche di atmosfera. I giochi si fanno seri quando arrivano Cupid, una sorta di connubio industrial-blues non lontano da Policy of Truth dei Depeche Mode (Violator, 1990), il rock sintetico à la Muse di The Rope, l'oscurità dubstep di Mercy e The Road, un altro adattamento ad hoc del repertorio di Gahan e soci. Rimangono fuori da questo giro le non eccessivamente edulcorate ballad, fra le quali vanno segnalate The Crow e Somebody To Die For.
Chi l'avrebbe mai detto che la eclatante promessa non mantenuta del debutto (oggigiorno il momento in cui le matricole riescono a dare il meglio di se stesse artisticamente e commercialmente) poteva essere rimandata al fatidico secondo album. Ebbene, gli Hurts di Exile dimostrano che nulla è perduto e solo la capacità di guardare con sapienza e lucidità all'attuale panorama discografico con i suoi tanti punti di riferimento e gli altrettanti sprechi e roiti è in grado di trasformarsi in preziosa linfa per il futuro. Il duo deve ancora crescere e non è sufficiente questo raggio di sole comparso una volta diradatesi i nuvoloni di Happiness per stabilizzarli in un finto Olimpo del pop. Non rimane altro che aspettare il terzo round e giudicare definitivamente la capacità di resistenza di questi amanti del bel decennio perduto e a tutti i costi rivissuto di fronte alle sfide che l'ineffabile galassia dello spettacolo fornisce ai suoi adepti e agli adepti dei suoi adepti.
Hurts, Exile
Exile - Miracle - Sandman - Blind - Only You - The Road - Cupid - Mercy - The Crow - Somebody To Die For - The Rope - Help - Heaven - Guilt
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