Signori miei, oggi vi parlerò di fuffa: già, basta recensire con anima a passione dischi che amo per ricevere se va bene uno o due commenti; oggi parlerò di qualcosa che mi fa veramente cagare, e che penso riscuoterà molta più attenzione: Hurts, si chiamano, A Pain In The Ass, li chiamo io. Del revival anni '80 abbiamo già disquisito qualche tempo fa parlando dei Blancmange, se mai qualcuno se ne fosse accorto, e dunque cosa c'è di più tipicamente eighties di un bel duo synth-pop nuovo di pacca? Una copertina di cui pure un bimbo di cinque anni percepirebbe l'artificiosa plasticosità, hype a manetta, collaborazione con la nota ballerina, indossatrice di lingerie ed attrice di soap opera Kylie Minogue. "Danielino lascia perdere, sprecheresti malamente cinquanta minuti della tua vita che nessuno potrà più restituirti" diceva il saggio che è in me, ma l'avventuriero che è in me ribatteva: "Beh, ma se per caso si trattasse di qualcosa di valido guadagneresti una nuova bandiera del pop moderno di qualità, nel caso facesse schifo... beh, pure Aldo Grasso ha dovuto guardare i programmi della Ventura e della De Filippi per scrivere le sue critiche."
Ecco, "Happiness" degli Hurts sta alla musica come "Quelli che il calcio" alla televisione. Plastica, plastica, e poi ancora plastica, due scaramaccai accuratamente direzionati dalla casa discografica senza un briciolo di originalità, di stile, una squallida copia di mille riassunti. Ascoltarlo tutto da cima a fondo richiede veramente tanto pelo sullo stomaco: soliti grooves e basi elettroniche già sentite e strasentite, tutto assolutamente standard, prevedibie, piatto, orchestrazioni melliflue, ammoscianti e farraginose, un cantante men che mediocre. Musica ruffiana, da supermercato, priva di qualsivoglia valore intrinseco. Singolony come "Sunday" e "Better Than Love" altro non sono che odierno pop radiofonco standardizzato con basi elettroniche prefabbricate e per questo spacciati come synth-pop, ma il peggio sta nelle ballads, che offrono momenti di puro splatter in cui, oltre alle ciofeghe ottantiane si avverte chiaramente l'influenza di brutture odierne come Coldplay e zuzzumaglia derivata, basti pensare a "Blood, Tears & Gold", "Unspoken", "Stay": bordate di melassa dolciastra in cui rientra anche "Devotion", in cui l'illustrissima ospite Kylie Minogue aggiunge la sua vocina atrocemente insulsa, come se non lo fosse già abbastanza quella del buon (si fa per dire) Theo Hutchcraft. In teoria uno dei tratti caratterizzanti del vecchio synth-pop sarebbero i testi intelligenti ed originali, spesso e volentieri impegnati a tutti gli effetti, inutile dire che in "Happiness" non vi è traccia di tutto ciò, solo amorazzi da strapazzo e dintorni. Chiude il tutto la piano-ballad "Water", che con un cantante al posto di un gatto morto forse sarebbe stata pure piacevole, ma tanto per girare il coltello nella piaga i nostri eroi piazzano una ghost track così svenevole ed affettata da risultare quasi comica, ma forse per qualche critico mu$ica£e "Verona" risulterà essere una sublime serenata.
In fondo qualche pur modesta potenzialità si intravede: l'opener "Silver Lining" ad esempio sembra presagire qualcosa di buono, una bella canzone dalle atmosfere epicheggianti e molto coinvolgenti, una bella melodia, ottima linea di piano, un refrain accattivante, non è un singolo, in un album da cui sono state estratte ben sette porcherie una peggio dell'altra. Sul serio, fa male al cuore vedere due mediocri mestieranti come questi ricevere lodi sperticate, premi a gogò dalla stampa prezzolata e vendere milioni di copie mentre artisti infinitamente più talentuosi vengono snobbati senza ritegno. Cosa salvare di questi A Pain... oops, no, volevo dire Hurts? Beh, a dire il vero ci sarebbe il bel faccino di Theo Hutchcraft e poi... ehm... e poi, qualcosa, forse c'è, ma forse, o magari anche no.
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