Nove anni oggi sono tanti, tanti per il mondo rapido e schizofrenico che ci circonda e ancora di più per il mercato discografico, abituato ormai a viaggiare a ritmi forsennati. A pochi è concesso di sfuggire a questi ritmi, sicuramente è concesso a chi è riuscito con la sua musica a lasciare in qualche modo un segno e quindi può permettersi il lusso di aspettare e di farsi aspettare. In questa schiera di “fortunati” troviamo anche Niccolò Contessa, “padre” dell’indie nostrano e di quel modo di approcciare la canzone che dal primo album dei Cani diventerà iconico e scopiazzato un po’ da tutti con fortune alterne. Contessa era atteso al grande passo, al salto che segnasse definitivamente la fine di una fase adolescenziale/universitaria – in un processo per la verità già fortemente avviato con l’album precedente – e l’approdo a una fase musicale ed espressiva più adulta e matura.
Sfatiamo subito ogni dubbio, in Post Mortem il salto c’è ed è evidente, a partire dai testi di ottimo valore fino alla cura dei suoni e degli arrangiamenti. Proprio da qui parte la critica principale che muovo a questo lavoro: se da un lato bisogna dare atto a una ricerca sonora radicale e in realtà comunque fruttuosa di Contessa, è anche vero che laddove si decida di ispirarsi legittimamente a suoni e approcci già in circolazione sarebbe quanto meno furbo cercare di far perdere un po’ le tracce. Ecco, la ricerca sonora in questo disco invece si riduce in un costante e palese oscillare tra Mk.gee e Iosonouncane, due artisti che hanno plasmato in maniera forte i nuovi suoni della canzone in America in Italia e che possono essere comprensibilmente presi a riferimento, ma qui i richiami – soprattutto a Iosonouncane – a volte sono davvero disarmanti, come nella title-track strumentale post mortem.
A parte questa debolezza (che peraltro ognuno può valutare come crede, dato che la mancanza di originalità e l’adesione a un canone stilistico non è assolutamente un difetto di per sé), il materiale come dicevo è decisamente valido: un plauso va ai testi, che in molti casi segnano davvero un grande passo avanti rispetto ai precedenti album che finivano sempre per comunicare a un segmento ben connotato di pubblico, e che qui invece hanno la dirompenza e la credibilità per raggiungere chiunque. L’esempio è nella parte del mondo in cui sono nato, pezzone sotto ogni punto di vista e che riesce a raccontare i nostri tempi con un’iconicità che recentemente pochi in Italia hanno saputo raggiungere. Vanno citati un altro paio di acuti come il brano apripista, io, e la e surreale e sinistramente dolce felice, mentre il resto dell’album è una serie di buoni pezzi che qua e là rischiano l’effetto stampino, compensato quasi sempre da una scrittura buona e tutto sommato efficace.
Il debaser non consente i mezzi voti che in questo caso sarebbero fondamentali, è un disco che per me vale un 3,5 pieno, che può essere approssimato a 3 per la questione dei suoni o a 4 per la qualità di scrittura e la compattezza. Personalmente trovo la ricerca sonora una questione non di poco conto, e forse un grandissimo pezzo non basta a far brillare un disco intero di tredici canzoni. Do quindi un 3 anche se controvoglia.
Ad ogni modo post mortem è abbastanza per parlare di un buonissimo disco, troppo poco per parlare di un capolavoro.
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