Non starò di certo qui a parlare di sto gruppo dal nome a dir poco imbarazzante. Non starò di certo a dire quattro stronzate, che si possono trovare su wikipedia e che sono solo superflue di fronte alla musica. Io non c'ero nel '68 e non posso dire nient'altro di più sul loro conto rispetto a ciò che si può trovare su internet o su un qualche dizionario di complessi italiani dei sessanta. Se l'abbiano scritto i Chewing Gum questo pezzo o l'abbia pensato qualcuno per loro, per me non ha nessuna importanza. Il mio reale interesse nei musicanti e negli artisti nasce quando non diventano che "un misero punteruolo per far buchi" (come diceva un romanziere ormai schiattato); un mezzo per farmi compiacere, godere, gioire ed esultare. Ed è ciò che riescono a fare questi tizi.
Parlerò quindi del brano.

Il testo ha poco rilievo di per sé e mantiene il riserbo, attraverso il suo oscuro dialogo-monologo, su ciò di cui si vorrebbe parlare, risultando strettamente funzionale, anche dal punto di vista della fruibilità (si tratta pur sempre di beat italiano), alla musica. Un messaggio chiaro ci è offerto solo all'inizio ed invita a porre la nostra attenzione cerebro-acustica allo strumento dominante, che, come nel titolo, risulta essere il centro nevralgico del singolo. E' proprio la chitarra (due a dire il vero) a rappresentare una sorta di radiazione cosmica di fondo in termini sonici. Si fa infatti avanti una sorta di distorto messaggio ancestrale, "una vecchia storia" da big bang incisa a ritmo lento. E' una narrazione elettrica a colpi di fuzz che si altera e si ripete in continuazione per quasi tre minuti, divagando e ritornando sui propri passi con uno spirito più vicino a una messa rock à la Electric Prunes che all'incendiaria/ata sei corde di Hendrix, la cui influenza è comunque evidente. Ma qui non ci sono libri dei canti alla mano né tanto meno cori in latino. Possiamo trovare invece una giovane e ingenua umanità "capellona" nel bel mezzo di uno sfrenato air guitar di massa, compiuto in un sano silenzio misticheggiante invero un po' freak. Un po' tanto freak.
E' però altro ciò che mi fa adorare questo pezzo: un desiderio che mi piacerebbe si realizzasse anche per un minuto soltanto.

Sarà che questi quattro ex ragazzini cantano in italiano, restando ugualmente ganzi quanto qualche loro compare d'oltremanica/oceano, sarà che di provare la così vitale tensione di questa fottuta composizione il mio corpo non riesce proprio a smettere, ma vorrei davvero che questa canzone continuasse a girare per sempre e che mi seguisse dappertutto. Vorrei addirittura tiranneggiasse sull'intero pianeta. Che rimbombasse ad alto volume (ben oltre il limite dei nostri miseri amplificatori) in tutti i timpani, coprendo con sé stessa ogni angolo del globo! Che chiunque non potesse fare a meno di scatenare la propria energia dimenandosi sulle sue note, ricevendo senza tregua badilate di piacere in crescendo! Che fosse come un dio! Meglio.

Amen

"Senti questa chitarra/copre tutte le voci/ormai non serve a niente parlare" 

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