A guardarlo, Ian Hunter, non gli si darebbero i settant'anni che quest'anno festeggia. Una vita dedicata alla musica, contraddistinta da tanti alti, soprattutto nei settanta, e parecchi bassi, gli anni ottanta gli ha persi chissà dove? Hunter, appartiene poi, alla schiera di  artisti che con il tempo migliorano sempre più, tanto da vivere una seconda o terza fase di carriera a livelli di popolarità inaspettata.

E' superfluo soffermarsi agli anni dei MOTT THE HOOPLE, gruppo che senz'altro avrebbe meritato più gloria soprattutto postuma. Sì, verranno ricordati in eterno per All the young dudes, ma una conoscenza approfondita della loro discografia merita...

Hunter, uscito dai Hoople, ha saputo costruirsi una dignitosa carriera solista, ma solo in questi ultimi cinque anni sembra aver trovato la giusta via in cui incanalare la sua vena artistica. Questo "Man Overboard" segue a distanza di due soli anni il precedente "Shrunken Heads", entrambi prodotti da Andy York, già chitarrista di Mellencamp e Willie Nile, donando al suono di Hunter quella vena Folkie che tanto si adatta alla sua stupenda voce.

Anticipato da una dignitosa copertina, che a volte fa anche piacere, il nuovo album abbandona l'elettricità piu' marcata del precedente a favore di ballads dal forte sapore americano, avvicinandosi in alcuni casi a Dylan, lo stesso Mellencamp o allo Springsteen più Folk, proprio come nell'iniziale The Great Escape, che potrebbe benissimo essere una outtakes delle Seeger sessions di Springsteeniana memoria. L'uso di strumenti tradizionali come banjo e mandolino fanno il resto.

La title track Man Overboard è la canzone che stiamo aspettando da Dylan, da troppi anni. Hunter accompagnato dall'armonica iniziale, sviluppa un pezzo che se fosse stato scritto dal menestrello di Duluth diventerebbe un nuovo classico. Semplicemente una ballad da dieci e lode, anche se io avrei eliminato le orchestrazioni finali. Girl from the office, si apre come un'altra canzone folk-country per poi svilupparsi in un ritornello beatlesiano che ti stampa il sorriso.

These Feelings, si apre con delle percussioni quasi tribali, la canzone ricorda qualcosa di Paul Simon. Ballad pianistiche sono River Of Tears e la stupenda Win it all con il suo crescendo, cantata con grande trasporto dalla stupenda e unica voce di Hunter. Più rock ed elettriche sono Arms and Legs, anche se troppo mainstrem per il sottoscritto e Up and Running, quasi southern rock, dove finalmente si sentono le chitarre elettriche di Jack Petruzzelli, James Mastro e Mark Bosch. Menzione ancora per Babylon  Blues che è sorretta da una buon suono di slide, americana pura.

Insomma con questo album, Ian Hunter si avvicina prepotentemente al suono americano andando ad insidiare calibri come Springsteen, Petty, Mellencamp, Earle e l'amato Dylan. Le carte in regola per giocarsi la partita almeno alla pari le ha, voce unica, l'uso della chitarra non è da meno, il songwriting adesso come adesso è alla pari dei sopra menzionati. Mancherebbe una bella spinta... certo parlare così di un settantenne non può che essere un merito.

Provaci ancora Ian...

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