Esiste il neo-folk in Italia? No, però ci sono gli Ianva.
Gli Ianva, nati nel 2003 per volontà di Mercy, cantante dei progster genovesi Malombra, giungono nel 2009 con questo “Italia: Ultimo Atto” alla loro terza prova (dopo il folgorante debutto “Disobbedisco!” e l'EP “L'Occidente”), confermando una consistenza, concettuale e qualitativa, che ambisce ad essere più del semplice frutto di un'esperienza estemporanea.
Il collettivo Ianva (che conta ben nove membri, coaidiuvati di volta in volta da un gremito stuolo di musicisti e collaboratori) è a tutti gli effetti una certezza ed una garanzia di qualità nell'odierno sottobosco musicale italiano: lo dimostra questo secondo (bellissimo) full-lenght che va a confermare quanto di buono era stato espresso in passato. Ma non solo, si potrebbe parlare di un progetto che intende porsi programmaticamente come al servizio di una rinascita di quello che è stato il patrimonio musicale del nostro paese, spesso snobbato (se non disprezzato) dagli ambienti alternativi ed intellettualoidi che spesso peccano di una irriducibile esterofilia. Un'espressione artistica che i protagonisti stessi definiscono come “archeo-futurismo”, con l'intento di recuperare il passato per delineare un nuovo futuro.
Ovvio che dietro ad un tal altisonante manifesto, si cela il disappunto appassionato per la degenerazione culturale e valoriale che ha vissuto il nostro paese dal dopo guerra ad oggi. Niente di nuovo sotto il sole, quindi, solo il fatto incontestabile che i Nostri riescono a contestualizzare all'interno dei confini del nostro paese quello che da anni viene predicato dai numi tutelari del genere: un messaggio che non si traspone solo a livello lirico (“Disobbedisco!” trattava della vicenda fiumana, “Italia: Ultimo Atto” intende, più ambiziosamente, ripercorrere gli ultimi settanta anni di storia nazionale), ma anche e soprattutto a livello musicale e stilistico. Se il neo-folk, in senso stretto, non è più di casa, e questo lo si poteva chiaramente intuire già dal debutto, in questo nuovo lavoro il cordone ombelicale con il genere viene decisamente reciso, per lasciare spazio, coerentemente con i principi che animano il progetto, all'ampio calderone della musica leggera nazionale (in realtà “pesantissima” se raffrontata al pensiero elementare di cui è portatrice quella di oggi), con un occhio di riguardo (e come poteva essere altrimenti?) alla scena cantatutoriale genovese degli anni sessanta e settanta: Luigi Tenco, Gino Paoli, Bruno Lauzi e (come poteva essere altrimenti?) Fabrizio De Andrè, ovviamente il più presente, non perchè citato, bensì perché facente parte dello stesso DNA culturale della band.
Genova, città di contrasti, costretta fra mare e montagne, in perenne lotta con la gravità, inerpicata sui pendii, articolata in angusti vicoli, salite e discese scoscese, ove convivono brutture e nobilità, piccolezze e grandiosità: sempre lì si va a parare. Prima ancora di fermarsi ad un mero approccio ideologico, bisognerebbe tener conto della città che ha generato questi artisti per capire l'effettiva portata della band. Una band i cui artisti, come nella loro città allucinata, riescono a far coesistere armoniosamente stili e generi diversi e spesso contrastanti: musica leggera, cantautorato impegnato, la tradizione progressiva degli anni settanta, un impatto cinematico che richiama continuamente nomi come Ennio Morricone e Stelvio Cipriani. Senza disdegnare sprazzi di neo-folk anglosassone, suoni marziali, l'armamentario gotico messo a disposizione da formazioni come gli In The Nursery, l'afflato lirico di protagonisti del disagio esistenziale quali Scott Walker, Peter Hammil e Marc Almond, da sempre citati come fondamentali fonti d'ispirazione.
Se poi consideriamo che l'ingresso nella band di Stefania T. D'Alterio (giornalista, saggista e cantante) ha portato a rispolverare nomi come Mina, Ferri, Milva e Berté, riusciamo ad avere un quadro ancora più esauriente.
Una proposta quindi anacronistica, quella degli Ianva, che tuttavia trova una straordinaria coerenza stilistica e concettuale, sospesa (paradossalmente) fra decadentismo ed arditismo, dimensioni per certi aspetti agli antipodi: un equilibrio, un valenza artistica e (soprattutto) contenutistica che va (e deve andare) oltre il pregiudizio ideologico e la pretenziosità degli intenti, la retorica grondante.
La pretenziosità degli intenti, la retorica grondante: nonostante con questo ultimo lavoro i Nostri intendano, come già accennato, ripercorrere una bella fetta di storia del nostro paese (dal 1943, per l'esattezza, ai desolanti giorni nostri), il risultato non è (come facilmente prevedibile) ridicolo. Certamente a Mercy e compagnia non manca la sicurezza e l'audacia per compiere un'impresa del genere, ma una volta tanto spocchia, bravura e professionalità vanno di pari passo.
La professionalità, altro elemento fondamentale per dare (qualora vi fossero dei dubbi) una chance in più all'ensemble genovese, che riesce a raccontare una storia di quasi 70 minuti senza concedersi una (dico una) sbavatura o momento di cedimento/prolissità: l'album non brilla quindi solo di un song-writing ed un lirismo sempre ispirati, ma anche di un allestimento egregio, a partire dai raffinati arrangiamenti, l'orchestrazione dei numerosi strumenti adoperati, la cura maniacale del dettaglio (si guardi ai frequenti suoni e voci campionati che costellano l'impostazione essenzialmente acustica dell'album), la perfezione dei suoni, per arrivare all'elegante confezione del prodotto, con tanto di testi, note a piè di pagina e foto d'epoca.
Rimane solo un unico problema: la pomposità. E così, anche coloro che, messi da parte i pregiudizi di ordine ideologico, i pregiudizi nutriti per una proposta che affonda a piene mani nella tanto vituperata tradizione della musica leggera italiana, alla fine dovrebbero fare i conti anche con una pomposità strumentale ed un'enfasi lirica che possono risultare a dir poco un qualcosa di mostruosamente lezioso, stucchevole, borioso. E non nego che a tratti non si fugge ad involontari scivoloni nel “cartone-animatesco”. Ma qua mi fermo, proprio laddove subentrano inevitabilmente i gusti personali.
Passiamo finalmente ai contenuti: l'introduzione è dedicata alle apocalittiche profezie di Pier Paolo Pasolini, il cui pensiero (straordinariamente attuale) rivive attraverso le enfatiche narrazioni di Enrico Silvestrin, su una base di pianoforte e fosche perturbazioni ambientali. Irrompe l'epica tromba di Roby Calcagno, che detterà legge per tutta la durata dell'album: è l'irruente opener “Dov'eri tu quel giorno?”, cavalcata di ben sette minuti in cui le incalzanti ritmiche trasportano il greve e drammatico canto baritonale di Mercy in un intenso ed impetuoso viaggio che ha come proprio big bang quella fatidica data che è l'8 settembre 1943. Seguiranno il caos, lo sconquasso dei bombardamenti, la rovina e le macerie, la guerra civile, la ricostruzione, il boom economico, gli anni di piombo, gli scandali, le stragi di stato, fino all'appiattimento degli anni ottanta e novanta: un percorso che culmina con un'oramai scontata title-track, che giunge ridondante e prevedibile, data la chiarezza delle premesse, le quali non potevano che portare ad un epilogo del genere. Il tutto narrato in maniera cristallina al passo di struggenti ballate (su tutte “Galleria delle Grazie” e “Negli Occhi di un Ribelle”), spazzi di "cabarrettismo noir" (fantastica la performance della D'Alterio in “Luisa Ferida”) ed incanzanti, solenni intermezzi strumentali (la bombastica “Cemento Armato” fra le altre). Il tutto riletto in un'accezione della storia romantica ed appassionata che adotta come punto di partenza il miraggio di una idilliaca e leggendaria epoca (i primi anni del novecento) nel tempo dissolta, dileggiata, dimenticata: visione che finisce per essere il presupposto base che bisogna gioco forza accettare per cimentarsi in un ascolto del genere.
Sarebbe poi interessante analizzare le singole tappe che determinano questa impetuosa e densa di drammi discesa negli Inferi della storia italiana, ma sembrerebbe di togliere troppo al gusto della sorpresa e della scoperta che un viaggio del genere può offire.
Un solo consiglio: avvicinatevi agli Ianva vergini e scevri da pregiudizi di ogni sorta. Ne rimarrete sorpresi.
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