Un artista nel mondo del rock di oggi è come un clown.
Si incipria le gote, si mette la parrucca e via, in scena.
Se il numero piace, otterrà i sorrisi e le risa di approvazione da parte del pubblico, al contrario otterrà unicamente il rumore del proprio respiro, domandosi del "perché?" qualcosa non ha funzionato.
In questa schiera rientra oggi Iggy Pop. Un uomo sulla sessantina, sfinito, ipersfruttato.
Più si cerca di scavare in quei suoi immortali muscoli facciali, che adornano il suo sguardo, più ci si domanda se mai nella propria esistenza egli abbia mai avuto l'opportunità di apparire meno teso, meno animalesco con se stesso e la sua immagine.
L'incarnazione di un nevrotico equilibrio proiettato grottescamente di faccia in faccia, col progredire delle generazioni iconoclaste che ben conosciamo.

Non un essere umano. Non una "rock star".
Un'immagine incolore.
Fatta di inesistenze plurime contro-bilanciate dal proprio ipotetico "carisma".
Una mummia. Ecco che cosa.
Una reliquia celebrata a base di putridi festival hollywoodiani in cui la plastica (ed il silicone) diventa regina di sorrisi smorzati e montati accuratamente.
Feste da obitorio dove manager in carriera, con in mano una bottiglia di Crystal, studiano nuove concezioni sullo sfruttamento di pezzi da museo come lui, brindando all'uscita di autobiografie ad egli inerenti, pregando che possa non riscoprire la passione verso l'eroina.

No, no, no. Iggy Pop non è questo.
Forse adesso che ha sessant'anni puo sembrare così, per via del fatto che oramai si è artisticamente rassegnato, lasciando in mano il tutto ad un figlio che gli dice come deve vestirsi (vale solo per i pantaloni naturalmente).
Ma c'è stata un occasione in cui decise di mettersi in discussione, di sfidarsi. A rischio di perdere tutto quello che già aveva perso negli Stooges. Se stesso.

L'occasione si chiama "The Idiot".

Nel 1977, stanco delle persone, del denaro e dell'America consumista, Iggy parte per l'Europa: destinazione Berlino.
Ad aspettarlo un vecchio amico di nome David Bowie a cui Iggy sta particolarmente a cuore.
Berlino non è New York, né Pasadena o San Diego, e di questo Iggy se ne accorge dal colore del cielo e dall'odore di neve che attanagliava la città del Brandeburgo, ma l'atmosfera è proprio ciò che gli serve. Qualcosa che disti un oceano dagli Stooges e dal fottuto, bavoso rock & roll. I giorni passano, uno dopo l'altro, e con la neve arrivano anche le idee.
Chiesta ed ottenuta la collaborazione di Bowie e di alcuni "colleghi" di quest'ultimo, Iggy si blinda nello scarno e gelido "bunker" di registrazione di proprietà del Duca Bianco, si soffia il naso sanguinante per il freddo e la nicotina ed inizia.
E' difficile esprimere come riesca a vomitarla, tutta la sbobba trascinatosi dall'America, eppure il suo intento si compie.
La linea vocale fuoriesce sin da subito dalla propria personale catacomba in "Sister Midnight", e già cominci a capire quanto può essere dura accettare la fine di qualcosa che ti lascia a te stesso, in compagnia della sola "sorella mezzanotte", ma ancor di più capisci che quello che sta cantando è Iggy Pop, non la sua immagine, proprio lui.
L'incidere dell'influenza di Bowie nella produzione dell'album si capisce ascoltando poi "Nightclubbing" brano che riesce ad essere dissacrante ed ubriaco di decadenza sin dall'introduzione, conferendo alla voce una spaventosa profondità, accompagnata da un piano-bar più che appropriato per il titolo. Un preludio. Anzi il preludio a "Funtime", una ballata elettronica, disciplinata, di ghiaccio, terminante in un finale delirante in cui le urla sovraincise di Iggy si raschiano a vicenda, per far capire che il tempo dei divertimenti è morto.
Da qui in poi la scoperta è singolare.
Ascolto "Baby" e mi stupisce per la sorprendente enfasi con cui le melodie strumentali si fondono a quelle vocali, ed il risultato lascia interdetti sul serio.
La successiva "China Girl" è stata concepita per ingannare l'ascolto. Una voce suadente viene sospinta da una sonorità che tramuta da orientale a glam nel giro di un minuto e mezzo per poi mutare nuovamente, con una visceralità da far rabbrividire, in un lamento destinato a decedere proggressivamente.
In "Dum Dum Boys" si percepisce la maturazione dei precedenti pezzi, frutto che risulta essere in perfetta sintonia new wave. La grave tonalità raggiunta qui da Mr. Pop è più che invidiabile, sospinta da note di blues spiritico.
L'evoluzione Blues arriva e si fonde dopo con "Tiny Girls": uno pseudo-walzer in cui la voce si alterna sgraziatamente ad un sax semi-baritonale.
Qui ci si ferma.
Il riverbero della certezza si coglie poco inizialmente a causa del silenzio. Il disco sta morendo.
Traccia n° 8.
"Mass Production".
Una rallentatissima ballata celebrante auto-distruzione inconscia si fa strada tra i mille pensieri che me ne domandano la motivazione. Auto-annullamento. Sepoltura. Privazione delle felicità. Tutti frammenti di indecisioni, folgorate da sintetizzatori serafici, che in otto minuti circa sembrano voler ricordare che il ciclo non termina mai. Il cammino dentro ad un tunnel. Passi spezzati dal rumore delle scarpe nella neve. Un cammino ferito a morte. Il riverbero si affievolisce sempre più.
Il disco è morto.
L'odore ferreo del suo sangue sulla neve, è l'unica cosa che riesco ancora a sentire.

Non più altre occasioni.

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