"Tuva è una piccola repubblica della Federazione Russa posta nel centro geografico dell’Asia, tra il sud della Siberia e il nord della Mongolia. Tra le tradizioni caratteristiche di questo paese il canto bifonico, detto Khoomei, riveste un ruolo primario. Il Khoomei ha una funzione importante nella cultura sciamanistica mongola e Tuvana."
Ecco, questo è quanto sono riuscito a trovare sul magico web per quanto riguarda l'album in questione. Informazioni che non riguardano l'album, ma l'ancor più sconosciuto (forse), paese di origine dell'autore (che altro non ha fatto che provare a diffondere le musiche del suo piccolo paese, con non molto successo visto che non lo vedo ancora su Mtv). Ma, a pensarci, forse è meglio così: è più comprensibile la natura così folcloristicamente intima di questo lavoro, e, detto questo, quello che rimane da dire è davvero poco e difficile. Questo disco è davvero difficile da catalogare nel nostro ordine musicale mentale; mi spiego: le sonorità che sentirete saranno davvero qualcosa di "nuovo", di primordiale, di incontaminato. Tempestati da artisti che hanno proposto molte volte un "meltin' pot musicale" (producendo anche grandi dischi, questo non è messo in discussione), sono poche le occasioni nelle quali ci si trova con suoni originali (nel senso di origine) nelle orecchie, con suoni davvero spiazzanti per la loro purezza e la loro dimensione distante e intangibile, distante anche più nel tempo che nello spazio.
"Music from Tuva" è una di queste poche occasioni. Questo disco porta davvero lontano, porta anche oltre l'immaginazione e le immagini di un oriente che abbiamo spesso visto con l'obiettivo di una telecamera a far da filtro. Figuratevi, a testimoniare la già citata intimità del disco, c'è addirittura una canzone dedicata al cavallo (animale importante su tutti i livelli, per il popolo tuvano) nella quale si riproducono nitriti e cavalcate con gli strumenti ("Cheler Ojuhm"). Seppure si parli di un disco molto lontano dalle sonorità americane ed europee più tradizionali e vicine a noi, le melodie proposte sono orecchiabili (non abbastanza da finire nella top of the pops, intendo) e non ostiche per chi è abituato ad altro folk, ma è meglio partire con l'idea di trovarsi davanti qualcosa di diverso e, quindi, aprire un po' la mente.
Questo disco non può essere assimilato con l'aiuto di un track by track, od una descrizione minuziosa degli strumenti con il quale il disco è stato suonato (ovviamente tutti acustici e puliti); spiccano le voci, un cantato talvolta acido e nasale, altre volte pulito e vibrante, con modulazioni notevoli (i più smaliziati penseranno subito agli incredibili vocalizzi di Stratos, sempre ricordando che Stratos è stato ispirato da lavori come questi e non il contrario), mentre l'orchestra al seguito di Koshkendey esegue in maniera impeccabile i quattordici pezzi del disco. Per il resto, che dire? Da ascoltare per fuggire anche da una realtà musicale oggi quasi opprimente, nella sua ricerca sonora.
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