E’ il 1976. Il rock progressivo italiano, e non solo, sta ormai tirando gli ultimi respiri, e si avvia a diventare musica di culto come il jazz o il blues. Nelle classifiche italiane impazzano i vari Gianni Morandi, Lino Toffolo e Afric Simone (oddio…), ma qualche coraggioso ancora insiste a far uscire opere fuori tempo massimo. Così ecco arrivare questi 4 ragazzi: Francesco Boccuzzi (chitarra e tastiere), Vanni Boccuzzi (tastiere), Antonio Napoletano (basso) e Piero Mangini (batteria). I primi tre avevano alle spalle l’esperienza con i Festa Mobile, uno dei tanti complessi che si sono guadagnati un posto nella forse poco onorevole, ma lunga, lista dei “gruppi progressivi italiani di un solo disco”.
Decidono di chiamarsi Baricentro, non tanto per riferirsi al centro di un oggetto, il punto del perfetto equilibrio, quanto per ricordare le loro origini baresi.
Come trovare un posto nel mercato discografico, con il progressivo agonizzante e restare coerenti con se stessi? La risposta è lì, bella lampante: basta ricordarsi che in quel periodo stanno andando forte i dischi di certi Weather Report, Mahavishnu Orchestra, Return to Forever; pazzi scatenati che ignorano cosa sia la melodia e il 4/4.
Jazz-rock, dunque (che poi qualcuno finirà per chiamare Fusion) e naturalmente, nella miglior tradizione, brani esclusivamente strumentali. Inoltre il Baricentro ha un qualcosina in più, quella mediterraneità che spesso ha fatto la differenza.
L’album si intitola "Sconcerto" e può voler dire diverse cose: il contrario di concerto? Stupore, confusione… ma in fondo è solo un titolo. La musica invece è chiara, diretta. Nonostante la presenza della chitarra, è il suono a doppia tastiera a farla da padrone.
L’omonimo "Sconcerto" che apre il disco, mette subito in mostra gli elementi tipici del jazz rock: tempi complicati, (ascoltate pià avanti il 5/4 + 4/8 di "Afka") e un’infinità di variazioni, ma nonostante ciò emerge, come si diceva prima, un certo gusto, un senso estetico che rende piacevole l’ascolto.
Nel proseguio certe sonorità possono ricordare i Weather Report, ma Zawinul era austriaco, questi sono pugliesi, vuoi mettere il calore?
Con una leggera preferenza per il lato A, vinilmente parlando, l’album scorre via piacevolmente e ci fa rapidamente scordare che il jazz-rock è musica per palati fini.
Naturalmente a livello di vendite, l’album rimarrà un “lavoro minore”, d’altra parte come poteva competere con “Johnny Bassotto”?
Due anni dopo arriverà “Trusciant”, ma questa ovviamente è un’altra storia.
Consigliato a chi pensa che sia impossibile ascoltare un disco di jazz-rock dall’inizio alla fine.
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