Ventisette canzoni da Barcellona, Svezia.

Gli svedesi hanno un po' questo mito della Spagna e fu così che il gruppo-orchestra di Jönköping scelse il nome di I'm From Barcelona per promuoversi e stimolare la curiosità degli abitanti freddolosi del loro splendido paese. Emanuel Lundgren (il fondatore, lead-vocalist e collante principale di questo gruppo di amici musicisti) verso la fine del 2008 si ricordò della pubblicazione in contemporanea dei quattro album solisti dei membri dei Kiss nel 1978 ed ebbe un'idea: perchè ognuno dei membri della mia band non produce ed interpreta un proprio pezzo? Detto, fatto: il 27 Gennaio 2010 sul sito ufficiale degli I'm from Barcelona cominciano a comparire nuove canzoni in formato mp3, una al giorno per ventisette giorni al termine dei quali i ventisette brani saranno anche pubblicati su vinile triplo.

Ventisette pezzi del puzzle, uno a testa, in una sorta di comunismo musicale che mette tutti sullo stesso piano e mostra come anche chi nei crediti di un album era relegato al ruolo di suonatore del triangolo in realtà abbia capacità e creatività da vendere; aiutato dal fatto che molti dei ventisette barcellonesi scandiavi sono anche vocalist e polistrumentisti, questo disco alla fine risulta più che un semplice lavoro di gruppo, diventa una passerella sulla quale nel lasso di tempo delimitato da una singola canzone compare un'unico soggetto sotto i riflettori: solo lui, si presenta, racconta la sua storia, mostra il suo lavoro e poi lascia il posto a qualcun altro. Un po' come una discussione all'esame di maturità, dove alla fine alzandosi ad un livello un poco più alto si vede il gruppo nel suo insieme, la classe, le ventisette singolarità unite a formare un grande orgamismo che vive, braccia, gambe, mente, cuore. Soprattutto cuore.

Questa concezione del lavoro come un compito a casa assegnato ai 26 studenti dal professore Lundgren dà la possibilità ad ognuno di esprimere la propria tendenza musicale prediletta e ciò porta alla presenza di numerosi generi musicali mescolati fra di loro: tocca al chitarrista Daniel Lindlöf uscire per primo ad essere interrogato e come compito porta "Lower My Head", la quale risulta essere come un mattino di sole d'inverno, una cavalcata pop/rock che ricorda un po' gli Snow Patrol. Promosso. Poi via a tutti gli altri: "But Hey Even Though Your Horses Went Away" della corista Anna Fröderberg è un breve e divertente folk che sa tanto di elfi di Natale, "Baby Let's Go" della pianista Tina Gardestrand è invece un pop leggero e sorridente da ascoltare in viaggio. C'è spazio per tutti e per tutto, le prime tracce allegre e solari non devono far pensare ad un lavoro monotematico da mettere in sottofondo alla Melevisione, c'è infatti spazio anche per i toni oscuri: "Silence" del trombettista David Ljung è un hard rock in cui la voce sembra uscire da una caverna in fiamme, "What Should I Do" del cantante Johan Mårtensson è ruvida e graffiante così come la distorta "My BPM Might Be Off, But My Heart Is Running Like a Clock" del batterista Olof Gardestrand, la quale suona come un lento grunge arricchito nel finale da una curiosa cover di "Total Eclipse Of The Heart" di Bonnie Tyler e dal tema di "Still Waiting" dei Sum 41. E poi c'è l'elettronica: "Pet Duet" della vocalist Cornelia Norgren sembra presa direttamente dagli anni 80, su "Be the Same" Mattias Johansson si scorda del suo sassofono e gioca con sintetizzatori e drum machine mentre in "Kosmonaut" del tastierista (e "metallofonista") Martin Alfredsson si respira aria d'infinito. E poi c'è il country: "Make Me a Cowboy Again for a Day" del sassofonista Henrik Olofsson è il riarrangiamento di un canto popolare e risulta uno dei pezzi più gradevoli, "Sick of Love" del clarinettista Jacob Sollenberg è una bellissima canzone da saloon condita con chitarre dobro e slide come nella miglior tradizione del genere, "Best Days Are To Come" del mandolinista Johan Aineland è una delicata ballad acustica da camino in autunno e "Matilda" del trobettista Jakob Jonsson ricorda il country più lento, tradizionale. Ci sono pezzi che rimandano alle atmosfere giocose e ai palloncini colorati del primo album del 2006: "UH!OH!" del bassista Kristoffer Ekstrand è una festa d'infanzia a cui tutti, ma proprio tutti, si divertono e "Nothin Like the Mornin" del flautista Rikard Ljung è una di quelle canzoni da mettere in sottofondo durante i titoli di coda dopo un lieto fine che più lieto di così non si può, quando tutti si salutano e tornano a casa contenti, "Troublemaking" del chitarrista Tobias Granstrand ricorda quel pop allegro degli anni 90 in cui si cercava di distogliere gli animi dal grigiore riemerso una volta finito l'effetto della droga 80s. Ci sono, allo stesso modo, pezzi che invece ricordano le atmosfere più cupe e riservate del secondo disco del 2008: "Morning Again" della cantante Frida Öhnell è un risveglio in solitudine in mezzo alla natura, "The Wave" del sassofonista David Ottosson risulta soffocante e claustrofobica e "The Return of the Ape" del vocalist Mathias Alriksson parla ancora d'amore, ma in modo timido e imbarazzato. C'è la pesante e sonnolenta "Zapatista" del suonatore di tuba Erik Ottosson e c'è l'ubriaco indie pop di "Göteborg" del vocalist Jonas Tjäder, c'è il pop/rock malinconico di "To the Clouds" di un altro vocalis, Micke Larsson, c'è il folk tradizionale di "Hej Hej Ivar" della corista Emma Öhnell (con testo in Svedese) e c'è anche spazio per qualcuno che non si è impegnato più di tanto e come compito ha portato delle cover: il vocalist Marcus Carlholt porta "Tour de France" dei Kraftwerk (ottima), la cantante Julie Witwicki Carlsson se la cava con "Dreaming My Dreams" dei Cranberries mentre il pianista Christofer Olofsson porta un tema musicale di "Alice in Wonderland". Sufficienza scarsa per mancanza di fantasia, ma comunque sufficienza.

E il prof? Eccolo: Emanuel Lundgren propone "Hang On", una delicata ballata al pianoforte dal testo fin troppo banale ma adatta ai giorni bui; piacevole, ma in alcuni casi stavolta gli allievi hanno superato il maestro.

Ad ogni modo: tutti promossi.

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