Il 17 giugno 2003 gli Immortal si sciolgono.
Una data che, come il 13 dicembre 2001 (Chuck RIP), o l'8 dicembre 2004 (Dimebag RIP), rimarrà impressa nella memoria dei metallari di ogni parte del mondo. Questi, tragicamente nel secondo e nel terzo caso, per volontà dei componenti nel primo, sono i tre momenti distinti in cui finisce la carriera di tre band che hanno costituito una vera leggenda del genere. Ma concentriamoci sugli Immortal, su Demonaz che dopo "Blizzard Beasts" è costretto ad abbandonare la chitarra per una tendinite, sul loro ultimo lavoro del 2002, e sulla carica di gelida violenza che riesce ad esprimere.
Perchè come nei precedenti lavori i bassi sono completamente annullati, resi quasi inesistenti, in favore dei riff taglienti e della voce tenebrosa di Abbath, con testi che si richiamano al "Blashyrkh", ad una natura pallida, oscura e meravigliosa. Mentre Demonaz si occupa "solo" della stesura dei testi, e si vede chiaramente. Ma c'è una differenza fondamentale: questa volta il sound è una base di black primordiale dalla produzione perfetta, con diversi elementi "extra" richiamabili al death. Uno stile coerente e studiatissimo, che si dimostra capace di evolvere, di guardare oltre, verso qualcosa di inconcepibile, per loro, fino a pochi anni prima. Ma già con "Damned in black" i nostri avevano mostrato di cosa potessero essere capaci, e questo disco segue quella falsariga: il risultato è un disco semplicemente indimenticabile.
Si parte con la ferocissima "One by One", caratterizzata da un tempo in doppia cassa velocissimo ed un riffing granitico tipico di alcune forme di death: un brano da ascoltare più volte, vista la "geometria" perfetta con cui è stato assemblato. In "Tyrants" troviamo un devastante mid-tempo, seguito da una parte arpeggiata alternativamente con chitarra pulita/distorta, che ci riporta vagamente alla memoria il celebre passato dei nostri. "Within the dark mind" è forse la migliore del disco, in cui evidenzierei il pazzesco lavoro di riffing di Abbath e le assurde parti di batteria di Horgh. Senza dimenticare i testi: "At the works of my gods I glaze my heart to be The nature of dark Awake my soul to see My quest reverse the time... within the dark mind Strength in it I find... ". Stiamo parlando della band black-metal probabilmente tra le più evocative ed atmosferiche, capaci di coniugare alle "classiche" sfuriate in doppia cassa un "clima sonoro" altamente suggestivo: tutto questo senza fronzoli atmosferici, ma con l'ausilio dei "soli" propri strumenti. E vorrei soffermarmi un attimo sulla produzione insolitamente perfetta per il genere, in cui sono massiccie le influenze di vari tipi di metal.
Tutto creato per realizzare un tappeto sonoro "ghiacciato", un'atmosfera lugubre capace di conquistare l'ascoltatore fin dalle prime volte. Nonostante alcune note un po' indigeste, ma solo perché difficilmente memorizzabili, posso dire con certezza che questo è un capolavoro del genere. Anche perchè i pochi brani non immediati sono perfettamente bilanciati dalla presenza diesecuzioni di "facile presa" (ma mai banali) come "Within the dark mind" o la splendida "Antarctica".
C'era da aspettarselo, da(parte de)gli artefici di "At the heart of winter" e "Damned in black": un disco compatto, da ascoltare tutto d'un fiato, senza tregua. Un vero peccato che siano definitivamente sciolti.
Abbath (Olve Eikemo) - guitar, vocals (1990-2003)
Horgh (Reidar Horghagen) - drums (1996-2003)
Saroth (Yngve Liljebäck) - bass (2002-2003)
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