Gli In Flames sono una band melodic death metal svedese, pioniere del genere insieme ai Dark Tranquillity. Sulla scena da 17 anni, si sono guadagnati fama e rispetto grazie alla loro musica da sempre molto aggressiva ma al contempo enfatizzata da linee melodiche sempre ben delineate, capaci di sfornare dischi memorabili come "The Jester Race", e dischi più vicini al suono d'oltreoceano ma da un impatto decisamente maestoso come "Colony". Ebbene dopo 3 anni di attesa e dopo l'abbandono inaspettato di Jesper Stromblad, gli In Flames ritornano con un album che prosegue sui binari del loro precedente lavoro, Sense of Purpose.

Ma se la penultima relase targata Friden&Co poteva anche risultare un album interessante sotto vari punti di vista, questo "Sounds Of a Playground Fading" proprio non convince.

A far da opening c'è proprio la titletrack: qui possiamo ascoltare una timida chitarra acustica che suona un motivetto molto melodico che culminerà poi nel più classico dei modi; niente di eccezionale ma scorre via che è un piacere. E' il turno di "Deliver Us" che grazie a un giro di note di tastiera riesce quasi ad apparire come una traccia cupa, finchè non sfocia nel più banale dei ritornelli da MTV.

"All for Me" e "The Puzzle" scorrono via senza lasciar traccia, la prima si distingue per un discreto intro susseguito poi da alcuni riff ben piazzati, la seconda invece sembra avvicinarsi di più al vecchio stile In Flames, ma non convince del tutto. "Fear is the Weakness" grazia a un sapiente uso di tastiere e chitarre che i Nostri riescono ancora ad amalgamare molto bene (ma anche per mertio di una sezione di drumming interessante), riesce a distinguersi dalle altre tracce. "Where the Dead Ships Dwell" non regala nessuna emozione; inutile "The Attic", scialba e priva di personalità e stesso identico discorso per "Darker Time".

La cazone più lontana dallo stile del quintetto è "Ropes": ultramelodica e quasi interamente cantata in clean, solo un mediocre assolo nel mezzo riesce ad alzare per un momento la nostra attenzione da una monotonia quasi snervante. "Enter Tragedy" ci risveglia per la bellezza di quattro minuti. Interessante il passaggio finale del brano, dove i ritmi rallentano e si appesantiscono, regalandoci un Friden finalmente aggressivo come gli si conviene. E' il momento di una canzone completamente elettronica, molto noiosa, che dovrebbe far da intermezzo: "Jester's Door" non la si riesce davvero a capire. Si riparte, fortunatamente, con a "New Dawn", forse la più completa sotto il piano strutturale: la prima parte è caratterizzata da un riff ben preciso che si stampa subito nelle nostre orecchie, interessantissima la parte centrale con violini e chitarre acustiche dove irrompe anche il primo vero assolo del disco. Si arriva alla conclusione con "Liberation" dove si tocca il punto più basso di tutta la carriera del gruppo svedese: spudoratamente melodica, quasi una hit da radio impreziosita da un assolo inutile e privo di fascino, una sezione ritmica statica, voce clean e miele a "go-go".

Che dire quindi di questa nuova fatica In Flames? Il problema maggiore risiede soprattutto nella struttura delle canzoni, davvero ripetitiva e scialba fino all'osso. L'aggressività che ha reso noto questo gruppo di Goteborg, qui non è assolutamente padrona di casa, lasciando invece ampio spazio ad armonie il più delle volte blande e piatte. Un disco che raggiunge la mediocrità solo grazie alla performance vocale di Anders Friden, che non smette di stupirci sperimentando questa volta un cantato leggermente diverso dai precedenti album. In definitiva sembra che Gli In Flames stiano attraversando un periodo di stallo; in questi ultimi lavori si avverte come un senso di spossatezza, sembra che Anders e soci, sfornino dischi solo per assolvere agli obblighi contrattuali. Speriamo che il quintetto svedese ritrovi presto la retta via e ci regali un album degno del loro nome.

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