Gli In My Rosary, sconosciuti ai più ed umilmente militanti dalla metà degli anni novanta, ci fanno partecipi di un sofisticato dark cantautoriale in bilico fra wave e folk apocalittico. Con questo "The Shades of Cats" del 2002, che io reputo l'album della maturità della band tedesca, le influenze più propriamente apocalittiche vengono smussate abbondantemente con l'apertura ad atmosfere pop e romanticheggianti, a tratti vicine a band come The Cure o Mission.
Ralf Jesek, mastermind del progetto (coadiuvato da Dirk Lakomy per quanto riguarda la stesura dei testi), decide evidentemente di scrollarsi di dosso la non troppo simpatica nomea di discepolo di Douglas P. In un certo senso cambia pelle, ampliando da un lato lo spettro sonoro della sua creatura, ammorbidendo dall'altro il sound, finendo così per allestire un bozzetto esistenziale, un viaggio intimistico e pacato, in cui le influenze sono ben evidenti, ma sapientemente ricondotte al mondo poetico e malinconico degli In My Rosary. Mondo che oggi è più vasto ed al tempo stesso meglio definito che in passato, forte della crescita e della maturità artistica del suo autore.
"The Shades of Cats" si compone di ben 16 pezzi, che spaziano fra le più disparate sonorità dell'universo dark: ci imbatteremo così in ballate folk, atmosfere gotiche, pulsante elettronica e saggi di autentico rock decadente. Jesek, dalle capacità tecniche limitate ma sempre e comunque ispirato, se la cava dignitosamente con tutti gli strumenti: elementari trame chitarristiche, a volte elettriche, più spesso acustiche, sono sorrette da ariose tastiere e da una efficace infrastruttura elettronica. A fare il resto è la bellissima voce tenorile dello stesso Jesek, una via di mezzo fra Douglas P. e Johan Edlund dei Tiamat.
Dopo la doverosa introduzione atmosferica (l'intro "When Grasshoppers Dream..."), l'opener "To End" ci stupisce con un pacato tappeto di drum-machine e ruvide suggestioni elettriche. Il canto dolente e per l'occasione "megafonato" di Jesek si staglia d'incanto sull'arpeggio sporco, che nel crescendo finale si tramuta in un fanciullesco assolo tipicamente smithiano. Si capisce che ci addentriamo in una dimensione pervasa da malinconiche visioni e struggente poesia. Si prosegue all'insegna della varietà, in un continuo alternarsi di momenti eterei ("My Guardian Angel"), incalzanti brani electro-rock ("All We Have", fra EBM e gothic-metal), elegante dark-pop ("No Place to Stay", forse l'episodio più riuscito, bellissima nel suo intreccio di arpeggi e trame tastieristiche) ed elettronica tunzettona di matrice ottantiana ("Confused by the Time", che sembra uscire direttamente da "Nada!" dei Death in June).
Vi sono poi i pezzi più tipicamente folk, quelli che rimandano palesemente alla Morte in Giugno, e parlo di brani come "Your Shimmering Hair", "A Naked Cloud", "Goodbye", Towards Wonderland", "Poor Little Love Song" (l'apice douglasiano di Jesek), "Into Moonlight": gioielli visionari in cui si racchiude l'epicità, la maestosità e lo struggente decadentismo del folk apocalittico nella sua forma più onirica. A chiusura troviamo la trascinante "Satin Sheets", tirato electro-gothic che ci ricorda come il nostro Jesek sia in realtà cresciuto a pane, krauti e luridi gothic-club berlinesi.
Il fantasma teutonico aleggia infatti per tutta la durata del platter, e per certi aspetti può costituire (se proprio ce lo vogliamo trovare) l'unico punto debole dell'album: suoni un po' plasticoni, passaggi eccessivamente truzzi e arrangiamenti a volte approssimativi vanno infatti a smorzare il pathos, la poesia e l'eleganza di un album essenzialmente incentrato su atmosfere intimistiche. Poco male: non rimarrano delusi coloro che non disdegnano le sonorità ottantiane in genere.
Un ascolto, in definitiva, indicato a chi ama il dark in tutte le sue molteplici sfumature e ritiene che il valore artistico non risieda nelle zone alte della classifica. Un gioiello da riscoprire, ascoltare e riascoltare, ovunque e con chiunque.
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