Recensire un'opera che abbraccia gli stilemi della musica ambient non è mai facile. La fruizione di una musica del genere è talmente soggettiva, e tanto dipendente dallo stato d'animo (e psichico, oserei aggiungere) dell'ascoltatore, che inevitabilmente si finisce per scadere in frasi inconsistenti e paraloni altisonanti, che non possono che risultare vuote espressioni, che più che chiarire finiscono per sviare il lettore dalla reale comprensione dei contenuti dell'opera recensita.

Questo è un ottimo album dark ambient: fatelo vostro!, estimatori del genere, e, più in generale, estimatori della musica cosmica, della musica-post industriale più colta, dell'avanguardia più mistica e tenebrosa. E la recensione potrebbe finire qui. Ma siccome la sintesi non è la qualità che mi contraddistingue, proverò comunque a dare un'idea della superba musica generata dalle menti e dalla macchine di Knut Enderlein e René Lehmann, altresì detti Inade.

Il duo tedesco raccoglie sapientemente idee e brandelli di musica disseminatosi dietro dal 2004 al 2008: idee e brandelli che, grazie ad una maniacale opera di assemblaggio e limatura, acquisiscono la forma di un viaggio coerente, coeso e dall'invidiabile unità concettuale. "The Incarnation of the Solar Architets", loro ultima prova da studio, nonché vero capolavoro della loro carriera, si compone di 10 fasi che nell'arco di 63 minuti ben esprimono quello che ci si può aspettare da un titolo del genere.

Lo sciabordio delle acque e il sibilare di gelidi venti cosmici ci accompagnano per una inquieta traversata siderale attraverso i segreti dell'Universo e dell'Anima, a metà strada fra un viaggio interstellare ed un intimo percorso spirituale. E già, come previsto, i paroloni si sprecano.

Rimaniamo pertanto aderenti ai fatti: il riferimento primo è sicuramente la perlustrazione clusteriana nella sua accezione più epica e misterica, non scevra, tuttavia, dai dotti insegnamenti di un Klaus Schulze e di un Florian Flicke, e non estranea certamente ad un tradizione industriale che muove i primi passi con gli imprescindibili Throbbing Gristle e si evolve con le oscure movenze di entità come Non e Coil nelle loro prove più ambientali.

Ma è bene chiarire una cosa: laddove uno stilema musicale quale è il dark-ambient crea un'impalcatura di suggestioni psichiche tramite il vuoto e l'assenza, Enderlein e Lehmann si riscoprono dotti musicisti che costruiscono la loro concezione artistica attraverso un percorso ragionato e denso di contenuti, impregnato di quel pragmatismo che contraddistingue la forma mentis ed il modus operandi tipici della terra dei crauti: il loro percorso si evolve costantemente, passando in rassegna gli scenari più disparati, in un contesto di costruzioni e soluzioni sonore (anche melodiche!) che volgono all'estraneazione, pur non puntando sul facile escamotage del minimalismo oltranzista (della serie: "Ti annoio fino a farti avere le allucinazioni"): no!, niente di tutto questo, l'entità Inade erge un monumento dai contorni ben definiti, che se ci appare evanescente, lo è per la complessità della sua architettura e la capillarità labirintica dei suoi corridoi e delle sue stanze. Un'osservazione che, pur nella sua accezione indubbiamente fantascientifica (si vedano gli effetti spaziali, le voci disumane naviganti nel vuoto), ammette elementi tipici della musica sacra (dalla componente tribale, alle partiture di organo, passando da inquietanti cori gregoriani che sembrano provenire da una setta di spiriti cosmici nascosti negli anfratti più impensabili della vastità dell'universo), muovedosi così, con disinvoltura, fra arcano e futuribile, oscillando continuamente fra un'era in cui dominava ancora il Niente, ed un'altra che si pone al di là dell'estinzione del Cosmo.

La resa finale dell'opera si avvicina così ai crismi di una musica cinematica che potrebbe fungere benissimo da colonna sonora per certe pellicole di autori come Kubrick, Herzog e Tarkovskij, prestati solo all'occorrenza all'immaginario fantascientifico, ma ben più interessati a sondare i risvolti filosofici del pensiero esistenzialista del novecento. Per questo è lecito accostare l'ampiezza delle visioni, proprie dell'immensità dell'Universo, all'abisso che si cela dentro all'Uomo, le sue paure, i suoi quesiti insolubili, le sue propensioni all'Assoluto.

Nell'intensa settima traccia "From the Angle of Aleph", per esempio, è come se si spalancassero i cancelli della percezione, ed è il solo episodio che mi sento di citare in seno ad una esperienza che in verità va assaporata tutta d'un fiato, indisturbati, preferibilmente in solitudine, al buio, come se si trattasse di un rito misterico da praticare nel pieno delle proprie facoltà mentali. Poiché la musica degli Inade richiede una partecipazione attiva da parte dell'ascoltatore, che alla stregua di un esploratore (stupefatto ed attonito) è chiamato ad interagire direttamente e a districarsi all'interno degli intrighi cosmici in cui è stato invischiato. 

Cosa vi era prima della Creazione?, prima del tremendo Big Bang che sconvolse tutto e diede origine all'Universo conosciuto? Cosa vi sarà dopo l'Apocalisse, dopo l'annientamento del Tutto per mezzo di forze indicibili? Le risposte, probabilmente, non l'avremo mai, ma nel frattempo possiamo consolarci assaporando questo album che ci dimostra quanto l'Arte sappia ancora oggi descrivere l'Ignoto e tutto ciò a cui non sappiamo dare un nome.

Buona esplorazione...

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