"Sono stanco di disegnare in bianco e nero/la mia penna è asciutta, ora sono alle strette/Così stanco di limitarmi per adattarmi alla tua deinizione"

Calabasas, Los Angeles, Usa. Ci troviamo nella West Coast, in una città che fu incorporata a Los Angeles nel 1991. Si snoda tra le colline a ovest della San Fernando Valley e le montagne a nord-ovest di Santa Monica. Oggi viene considerata una piccola Hollywood residenziale dove si trovano le ville dei vip. Proprio nel ’91 nasce qui uno dei gruppi più interessanti della scena crossover/alternative metal/ nü metal dell’epoca. Aprendo lo Yearbook 1991 dell’High School di Calabasas lo riconosci subito: schizofrenico cool boy statunitense orfano di padre un po’ surfista, un po’ skater, un fan accanito dei Faith No More e dei suoi due tutori illegali chiamati Korn e Deftones; a seconda del suo mood (è un ragazzo instabile) il nostro teen butta giù versi serratissimi e fa murales di fronte all’oceano, fa scratch-battle con gli amici, ma non gli basta perché è un curioso: vuole sapere di più della musica, è un grande appassionato e ha il cuore a mille, si infila nelle pieghe del jazz e ne riutilizza gli accenti a suo piacimento, perché il presente è tutto ciò che ha ed è la sua grande risorsa; fa parecchio incazzare anche, ai più non piace, perché non ha principi, non segue le lezioni e i programmi, non concepisce gli schemi, non rispetta, segue il flusso perché impara dall’oceano e dalle onde: non sempre c’è quella perfetta, ma quando arriva, bisogna farsi trovare pronti, no matter what. È l’ "incubo" dei professori, nessuno sa cosa dirgli, nessuno riesce a fargli capire le ragioni per cui bisogna stare attenti, seguire le regole, studiare dal passato, attenersene, non mancare mai di rispetto a quelli più grandi, a quelli che sono venuti prima. Ed ecco qui, che poi ti viene un infarto a starci dietro a questo ragazzo, ti chiedi come faccia a non riposarsi un secondo, ti chiedi come faccia a spingersi sempre oltre il limite creativo, come faccia a giustificare accostamenti che mai prima d’ora erano stati fatti per il semplice fatto che a farli è stato lui; è ostico nella sua audacia, ma meraviglioso, e non ci sono definizioni che tengano perché nessuna di esse basterebbe. Ti chiedi come faccia, e lo invidi, sì, lo invidi di brutto. Allora cerchi di capire, ti siedi, ascolti tutto quello che ha da dire una, due, tre volte, fino alla fine, pensi di aver capito questa volta. E finalmente arrivi all’ultima cosa, quella che non avevi proprio afferrato, è l’ultima traccia dell’album e si chiama Segue 1. Dura più di 10 minuti. Va bene puoi farcela, il jazz lo conosci e lo riconosci, c’è un andamento shuffle, il club è in chiusura, si abbassano le luci e il ragazzo fiducioso ti chiede: ”Capito adesso?”. Ma la tua risposta sarà sempre “Sinceramente no ma ti prego, continua”, e non importa quante volte te lo rispiegherà, tu comunque non riuscirai a stargli dietro e per questo non lo mollerai un secondo, entrerai in fissa. Jesse in "Breaking Bad" parlava così della testa di uno che sta sotto metanfetamine: si scava, convinti che alla fine si arriva a qualcosa, ma in realtà non smetterai manco arrivato al magma. Il punto è digging. E qui si digga una cifra. Sei fomentatissimo, vuoi riascoltare di nuovo tutto e capire qual è il segreto di tanto zelo, vuoi andare a un concerto di questo eclettismo disinibito che sono gli Incubus di S.C.I.E.N.C.E., 1997. Lo vuoi, perché è divertente, è stimolante, è geniale, è senza limiti, è creativo, è forte, è ribelle, è geniale, è energico, è fresco.

Una cascata di fomento viscerale che ti pulsa dentro in ogni traccia e a ogni traccia si evolve, scava sempre più. Redifine, Vitamin, Calgone, New Skin, spiazzante Summer Romance( Anti-gravity love song), oh god Nebula, no aspetta ma poi c’è il funk di Deep Inside, che è fighissima. Non si può andare per ordine quando si parla di S.C.I.E.N.C.E., qui non si sta trattando di un album qualunque, qua stiamo parlando di un album incredibile di un gruppo dalle grandissime qualità tecniche musicali, talenti creativi senza limiti di sorta, dei mostri sostanzialmente capaci di mischiare hip hop, rap, funk, punk, metal, rock reggae, jazz, elettronica, plus una sezione ritmica eccezionale, che ti fa accapponare la pelle. L’illimitato sta alla base della loro fortissima identità che si strugge per 13 tracce per farti arrivare alla fine del disco scoraggiato e demolito nel tuo razionale tentativo di dare sempre un nome alle cose. Nietzsche la chiama violenza del logos, della parola che definisce, conclude, recinta, limita, che quindi per forza di cose è foriera di significati omessi.

"High school boy, ti amo. Non cambiare mai” gli dico.

Lui poi cambierà.

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