Qualche annetto fa ricevetti da un mio caro amico una serie di cd contenenti mp3, che andavano a scavare soprattutto nel ricco panorama musicale italiano "rock progressivo" degli anni '70, evitando di raccogliere materiale su gruppi già celebri come Area, PFM, Banco del mutuo soccorso, Le Orme, New Trolls, e concentrandosi in gran parte su complessi più sconosciuti come Locanda delle fate, Latte e miele, Città frontale, Jumbo ecc.
Spulciando tra questa marea di dischi non potei fare a meno di notare il bellissimo album "Vento del deserto" scritto e prodotto da un gruppo affascinante corrispondente al nome di Indaco. Gli Indaco nacquero in realtà nei primi anni '90 dall'incontro tra Rodolfo Maltese (chitarrista dei Banco del mutuo soccorso) e Mario Pio Mancini (bouzuki, violino) con il proposito di concretizzare una semplice e spontanea combinazione di grandi musicisti, accomunati dall'unico pregevole intento di regalare emozioni e divertirsi facendo buona musica. Siamo dunque nel 1997 e la formazione base vede arruolati in pianta stabile, oltre ai due musicisti già citati, anche il mitico Pierluigi Calderoni alla batteria, Luca Barberini al basso (fretless), Arnaldo Vacca alle percussioni e Carlo Mezzanotte alle tastiere. Per l'occasione attorno ad essi orbita una fornita schiera di ospiti di lusso; in particolare una nota di merito va sicuramente a Mauro Pagani, sempre pronto a tuffarsi in nuove e stimolanti esperienze, Francesco Di Giacomo, ed alla voce principale (che voce!!!) Enzo Gragnaniello; altri ospiti presenti sono Massimo Carrano e Toni Esposito alle percussioni, Antonello Salis all'armonica, Rino Zurzolo al contrabbasso.
"Vento del deserto" (cd raro, purtroppo fuori catalogo), il secondo album dato alle stampe dagli Indaco, presenta una manciata di brani scorrevoli, alcuni di grande spessore, che trascinano senza fronzoli l'ascoltatore in un mondo fatto di panorami suggestivi ed atmosfere fumose; gli Indaco ci propongono una miscela musicale di grande qualità ed attualità. Suoni freschi e naturali, spesso risultato dell'uso massiccio di strumenti etnici, chitarre acustiche, bouzuki, violini, fisarmoniche ecc., attraverso i quali si palesa la necessità di recuperare, purificare e rafforzare le radici che affondano nel proprio entroterra culturale; una visione a 360° ampliata grazie alla ricettività e rinnovabilità di musicisti di indubbia caratura, che qui danno fondo al loro sterminato bagaglio di conoscenze.
Parto azzeccato della medesima soluzione, un rock-folk di stampo etnico, "Su nuraghe" (brioso e magico brano d'apertura) e "Ascea" viaggiano a braccetto, tessendo arabesques dalle tinte lussureggianti, e sollecitando istantaneamente alcune sfumature dell'ibrida emotività dell'ascoltatore. Anche se "Set The Controls For The Heart Of The Sun", rivisitazione del celebre brano dei Pink Floyd, e "Waiting For The Kundalini" (caratterizzati entrambi da un impronta fortemente orientaleggiante) sono gli unici episodi non molto ispirati che ritoccano lievemente la media qualitativa del disco, da "Vento del deserto" in poi si entra nel vivo dell'album, il quale pian piano inizia a ritagliarsi spazi ed attributi da vero capolavoro. La title track, brano più sommesso e pacato rispetto ai precedenti, viene delineata da corposi arpeggi di chitarra 12 corde e mandole, che insieme ad un bellissimo violino sussurrano all'anima il piacere di contemplare una lieve brezza, una brezza che grazie al sapiente ricalco degli accenti, ed all'intensificarsi del groove esplode in un vento impetuoso ed incontrollabile.
"Friend-Ship" è un canto indiano scarno, vibrato, penetrante, come un mantra che percuote dal profondo, ma è "Green Fog" il fiore all'occhiello di questa mostra itinerante nel crocevia della peculiare contaminazione musicale dei nostri, che vede il connubio tra jazz, popolare, musica solare mediterranea, sinuosi intrecci orientaleggianti e quella vena surreale scandita dal magistrale quanto robusto duetto voce-fisarmonica; un'intuizione memorabile che verrà in seguito proposta più volte con successo. Altre due perle sono certamente "Il volo del gabbiano" (un po' latineggiante, un po' tango, un po' jazz-otiented, con basso e violino in gran spolvero) che ricorda certe cose alla Pat Metheny, e "Vision Of The Sea", suggellata da un bell'assolo di fretless, mentre "Gocce" è un brano sperimentale, in cui il suono delle gocce d'acqua è riprodotto tramite l'uso di strumenti percussivi accordati e detensionati proprio per ottenere questo effetto simil pioggia battente o che scorre (penso ai suoni prodotti dal "Bastone della pioggia", strumento costituito da un cilindro cavo affusolato e riempito da chiodi di legno, anche se molto meno cristallini).
Come ultimo splendido brano arriva "Tharros" (l'unico con un testo), una ballad rock-folk di gran classe che si espande tra soli di fisarmonica, sempre trascinante, e di tastiera, e che registra la gradevole presenza al cantato di Francesco Di Giacomo, con la sua voce epica sempre un po' teatrale a decantare solennemente la disillusione di un uomo perduto di fronte all'immensità dell'universo.
Dopo questo bel capitolo la band ha continuato a produrre musica dapprima con l'album in studio "Amorgòs" del 1999, proseguendo con un live "Spezie" (contenente anche alcune novità) uscito nell'estate del 2000, fino a "Terra maris" (2002), mentre il primo album "Indaco" stampato in un numero limitatissimo di copie risale al 1992 . I primi tre dischi (incluso "Vento del deserto") sono stati editi dal manifesto e sono difficilmente reperibili se non in formato scaricabile, quindi il mio sincero consiglio per tutti gli interessati, debaseriani e non: armatevi di tanta buona pazienza.
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