Descrivere gli Indian Jewelry è come assistere a decine di cerchi concentrici che si espandono in acqua dopo aver gettato un sasso acido e pulsante meglio noto come Psichedelia, nucleo portante di questa multiforme proposta sonora nata nel 2002 tra le lande desolate del Texas, per opera di un gruppetto di strippati originari di Houston e germogliata ben presto nell'underground americano.
Un progetto che ruota attorno ai due perni e polistrumentisti Tex Kerschen e Erika Thrasher (di cui quest'ultima è anche la vocalist), ma che è aperto alla collaborazione dei più svariati musicisti passati di lì a donare suoni durante goliardiche giornate al retrogusto di benzedrina.
Benché all'apparenza possa sembrare si tratti dell'ennesimo beat revival trapiantato in epoca attuale oltre che di un'operazione d'immagine non poco provocatoria di un collettivo(più che una band stabile) che posa in foto ufficiali con tanto di poncho e kefiah, maneggiando mitra e pistole, e innalzando un manifesto che promette un "bagno di sangue", la verità è che i 5 neo-hippie, tra un trip lisergico e l'altro, tirano fuori dal cilindro una miscela esplosiva di elettronica acida e rock allucinogeno avvolte da un guscio a forti tinte lo-fi fatto di schiamazzi kraut alternati ad accenni noise, con un'attitudine quasi garage che affiora nelle schegge di rumore dirette con violenza all'orecchio dell'ascoltatore, forse impreparato per uno spettacolo così estremo.
"Free Gold!", terzo album ufficiale, venuto alla luce nell'anno appena conclusosi, è un vero e proprio calcio nello stomaco: partire ascoltando il quasi shoegaze di "Swans" è un'esperienza percettiva degna di nota, tra muri di feedback che si sovrappongono fino a costituire barriere strepitanti di rumore e una voce in perenne trance che cattura i vostri sensi fino a farne un pacco-regalo con destinazione galassia, o l'elettronica ossessiva di "Temporary Famine Ship" con una chitarra nel mezzo a dispensare assoli prodotti dall'evidente delirio psichico momentaneo di chi li compone, per poi cambiare registro(e non c'è niente da sorprendersi visti i soggetti in questione) e tuffarsi nella ballad dal sapore classico di "Pompeii". L'elettronica schiumosa di "Too Much HonkyTonking" è invece qualcosa di realmente opprimente, angoscioso, cupo, claustrofobico, con punte di rumore dall'incedere ipnotico, i singoli strumenti divenuti quasi indistinguibili nel pastiche rumoristico e le vostre sinapsi afferrate e spremute come limoni; tra i vertici dell'intero disco probabilmente.
Non si può non riportare il folk acido di "Everyday" dove pochi accordi di un'acustica si fondono con la voce alienante della Thrasher, o l'esperimento electro tribal di "Hello Africa" con un loop di base accompagnato da percussioni tribali e voci storpiate elettronicamente, fino ad arrivare all'apice di "Seventh Heaven", non a caso brano di chiusura, e in sostanza un gioiello di rara bellezza che si avviluppa tra lunatici rintocchi di chitarra e synth sullo sfondo a disegnare immensi scenari cosmici; si entra così nei confini più kraut con gli Ash Ra Tempel a far da guida verso ignoti territori mistici da scoprire.
La "gioielleria indiana" manufattrice di suoni. Una bottega psichedelica che, seppure ostica al primo ascolto, vi farà drizzare i capelli per le visioni a cui vi condurrà, e vi lancerà dritti nello spazio in direzione di Saturno o Giove con il culo attaccato alla sedia, il cervello liquefatto e una massa di schiuma fuoriuscire dalla bocca.
Carico i commenti... con calma