Pare proprio che questa volta gli Indian abbiano fatto il colpaccio! Ma chi diavolo sono gli Indian?, si chiederà la maggior parte di voi. Non sono degli esordienti, questi quattro musicisti provenienti da Chicago e che hanno iniziato a godere di una certa visibilità solo a partire dal quarto album (“Guiltness”, del 2011), grazie soprattutto al supporto di una etichetta importante in campo estremo come la Relapse. Ed è al quinto tentativo, con “From All Purity” (uscito ad inizio anno), che trovano la quadratura del cerchio, nonché l'ispirazione per emanciparsi ulteriormente da quella forma canonica di sludge-metal che ha caratterizzato le loro origini più di dieci anni fa. C'è chi tira in ballo il noise, la drone-music ed addirittura il black-metal, ma se è vero che nella partita rientra l'ex Wolves in the Throne Room Will Lindsay, e dietro al mixer siede niente meno che Sanford Parker (produttore/musicista di spicco nell'attuale panorama post-extreme-metal a stelle e strisce, in evidenza con i suoi Minsk ovviamente, ma anche con mirabili progetti come Corrections House o svariate collaborazioni in salsa black, Nachtmystium e Twilight fra le altre), nonostante tutto questo, si diceva, non mi sbilancerei più di tanto tirando in ballo chissà quali migrazioni verso il tanto in voga filone U.S. Black Metal.
Il sound degli Indian è solo contaminato dagli elementi sopra elencati, ma rimane monolitico, compatto, pachidermico: non si abbandona ai vuoti estenuanti predicati dalla drone-music, né tenta la carta delle infiltrazioni melodiche proprie del black-metal. I parametri di riferimento che perimetrano il degrado e lo sconquasso messi in musica da questi terroristi del suono continuano ad essere nomi “rassicuranti” come Eyehategod, Neurosis, Today is the Day, Khanate, mostruosità musicali che hanno saputo rimodulare le recrudescenze proprie dell'hardcore più sanguigno attraverso un approccio più sperimentale, sbranando e slabbrando odio e violenza fino a renderli follia e disperazione strisciante. Nei fatti: chitarre pesanti tonnellate, estensioni al rumor bianco e voci al vetriolo. Già i primi istanti dell'opener “Rape” sono paradigmatici in tal senso: nell'apertura ex abrupto, una calata barbarica di accordi ribassati ed armonie dissonanti, di battiti disconnessi e scricchiolii diffusi, una massa sonora imponente e vischiosa le cui increspature sottendono ad un tumulto interiore di immani proporzioni, è rinvenibile quel titanismo che sa essere maestoso quanto claustrofobico, e che caratterizzerà tutto l'operato degli Indian nel corso di “From All Purity”. Suoni limpidi e potenti pur nella loro natura corrosiva e letale sono il frutto paradossale dell'attento lavoro in sede di missaggio del bravo Sanford Parker.
Solo sei pezzi per nemmeno quaranta minuti di durata: almeno sulle lunghezze gli Indian ci risparmiano. Per il resto, l'album è un tour de force che richiede un notevole sforzo da parte dell'ascoltatore: i quattro musicisti, pur non spiccando individualmente, riescono a mantenere saldo il controllo sulla materia sonora da essi maneggiata, ammaestrando il caos con un lavoro di chitarra corposo, epico, catastrofico, d'impronta indubbiamente doom, ed arginandolo con un drumming misurato e diligente. Fra queste piaghe emerge incontenibile l'efferatezza della vocalità epilettica-strappa-tonsille di Dylan O'Toole, apparentemente non troppo distante dal tipico gracchiar del black-metal, ma che in più di una circostanza tradisce la propria derivazione sludge/hardcore (a tratti sembra una parodia estremizzata del buon Johnny Morrow dei mai troppo compianti Iron Monkey), ed in particolare nell'abbandono alle mitragliate schizoidi che ricordano da vicino l'estro perverso di Steve Austin (Today is the Day).
Ma cosa succede veramente in questi sei lunghe composizioni? Apparentemente non molto: il post-hardcore nevrotico degli Indian si muove con passo deciso, ma unidirezionale. I brani possono essere leggermente più lenti o leggermente più veloci, ma mantengono la medesima insana propensione alla devastazione psichica mediante la reiterazione: un modus operandi il cui fine sembra essere proprio quello di far uscire di cervello l'ascoltatore. Fra l'agitarsi muscolare delle chitarre e le denotazioni di basso, si individuano delle linee melodiche che conferiscono complessità ad un sound che è sì violento, ma punta in pari modo alla mente come al cuore, probabilmente per annientarli entrambi. E così “The Impetus Bleeds” e “Directional” proseguono sulle medesime coordinate, sono neri monoliti, prolungamenti della medesima onda di violenza apocalittica, in cui i pattern ritmici sono semplici quanto efficaci.
Se il caos riprodotto nelle prime tre tracce è puro assalto sonoro, una bolla che lentamente si ingrossa ed è destinata a generare crepe e fratture, far tremare pareti e far cadere calcinacci dal soffitto (e non mi riferisco solo alle mura di casa, ma anche all'involucro osseo in cui alberga la nostra materia cerebrale), nella seconda triade il discorso sembra dirigersi verso il dominio del trascendentale: in “Rethoric of No” i battiti si fanno nervosi, la tensione cresce fino all'ossessiva fase di rilascio finale che, fra corde di basso strappate e turbinii di feedback, sfocia in modo naturale nel noise puro di “Clarify”, maelstrom cacofonico a base di frequenze distorte. Non altro che l'agonizzante preludio all'arpeggio desolato che striscia sottocutaneo lungo i solchi dissestati della conclusiva “Disambiguation”, monumento definitivo al cortocircuito emotivo messo in scena dalla formazione di Chicago: un fiume dolente di detriti psichici ed emotivi che nella sua coda melodica finalmente adotta quelle soluzioni (riff melodici e doppia-cassa) accostabili a quella sensibilità più marcatamente black-metal che ci attendevamo fin dall'inizio.
Questi Indian, in conclusione, non saranno geniali o originali quanto i loro maestri, o altri esponenti, loro coevi, di questa nuova ondata di musica del malessere che ama coniugare sludge, doom, noise, post-metal e sovente black-metal. Ma questo “From All Purity” si colloca a piena dignità fra le uscite più interessanti di quest'anno, gettando peraltro importanti premesse per un percorso che si prospetta in ascesa e che potrà assicurare a questi viandanti dalle vesti logore un posto d'onore fra i rappresentanti più blasonati del settore.
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