Ciao ragazzi, oggi si varia un po'. Rispondendo alle simpatiche critiche di Muffinman, che lamenta la pedanteria delle mie recensioni in ambito "trash", ho deciso infatti di recensire un film maggiormente "serio", almeno secondo le tradizionali direttive della nomenclatura ufficiale, tanto cara anche ad un altro dei miei critici, il puntuto Poletti.

In realtà, per mettere le mani avanti e non tradire la mia missione, osservo come anche il film che andrò a commentare per voi rientri, astrattamente, nel c.d. cinema "minore" a me tanto caro, se non per quanto attiene al suo profilo tecnico/artistico, per quanto certamente attiene alla sua diffusione presso il grande pubblico ed alla sua effettiva notorietà presso gli utenti medi, oltre che presso i più giovani. Un fenomeno dunque speculare rispetto ai "fenomeni" di cui mi piace occuparmi su questo sito.

Entrando nel cuore della recensione, "Il settimo sigillo" ('57) rappresenta uno dei capisaldi della filmografia del regista svedese Ingmar Bergman (1918-2007), oltre che uno degli snodi fondamentali del cinema europeo del secondo dopoguerra.

Il cavaliere Antonius Block, reduce dalle crociate, rientra in patria con il proprio fido scudiero, in un paese ormai devastato dalla peste e dalla miseria. La Morte aleggia ovunque, percepita come un castigo divino, ma addirittura si presenta in persona al cavaliere, annunciandogli la sua futura ed ineluttabile dipartita: il cavaliere, tuttavia, chiede del tempo alla Morte, sfidandola ad una partita a scacchi, il cui esito, tuttavia, appare segnato in partenza. Durante il tempo che gli rimane, il cavaliere farà un tortuoso ritorno a casa, incontrando nel cammino una compagnia di guitti, una derelitta, un fabbro tradito dalla moglie, e giungendo infine al proprio castello, dove lo attende la moglie e dove si avrà l'epilogo, non del tutto inatteso, della storia.

Una vicenda nel complesso semplice e non del tutto inedita viene messa in scena da Bergman in un espressivo bianco e nero, in cui il paesaggio domina e riflette gli animi dei protagonisti: aspro, accidentato, tortuoso il paesaggio in cui si muove il cavaliere, dolce ed ameno quello in cui si muovono altri personaggi, come la coppia di guitti incontrati nel cammino. Rovinoso quello dei villaggi e dei casolari diruti, ormai abbandonati o deserti a causa della inarrestabile pestilenza, teso, mortifero, quello del castello in cui si avrà l'epilogo della vicenda.

Molto bella la fotografia, non solo nei luminosi esterni ma, soprattutto, nei chiaroscuri degli interni, come le chiese, le case, quasi a riflettere il bianco/nero della vita e delle morte, e l'ambivalenza stessa delle pedine della scacchiera del cavaliere.

Decisamente valida la scelta degli attori, ben diretti dal regista svedese, a partire dall'espressivo Max Von Sidow, passando per la finezza comica del guitto Nils Poppe, oltre che per l'inquietante maschera della Morte di Bengt Ekerot (dev'essere piaciuta a Mel Brooks per il personaggio di Igor, ed anche a Zuzzurro e Gaspare per Isaia di Drive In). Espressivo anche l'attore feticcio di Bergman, Gunnar Björnstrand nel ruolo dello scudiero, forse il più materialista dei personaggi del film, poi silente di fronte alla Morte. Affascinante l'esordiente Bibi Andersson nel ruolo della moglie del Guitto, di una bellezza elegante che stride con l'idea che noi italiani possiamo avere di questo tipo di donna (Marina Lothar Frajese docet).

In ordine ai possibili significati del film, ed alle interpretazioni relative ad una storia costruita anche per ellissi narrative e simbolismi, non vorrei eccedere in intellettualismi gratuiti, sottolineando, piuttosto, come il pensiero del regista sia ben espresso, tra le righe, nel dialogo fra un pittore (alter ego di Bergman e di tutti coloro che "rappresentano") e lo scudiero del cavaliere.

La rappresentazione non serve a dare risposte, ma a sollevare domande ed interrogativi, eventualmente anche a suscitare nel pubblico reazioni sopite, come la paura del nulla che si spalanca dopo la vita, l'interrogativo circa l'esistenza o inesistenza di Dio. Ed, in effetti, questo film non offre allo spettatore alcuna risposta, come la Morte non offre alcuna risposta al cavaliere che, reduce dalle crociate, si interroga sul senso delle cose, sullo scopo ultimo della vita, sulla effettiva esistenza di un disegno divino, salvifico o provvidenziale.

E' un film che, piuttosto, ci mostra, o cerca di mostrarci, la reazione dell'umano di fronte all'incomprensibile, o anche al possibile che si cela dietro il Nulla, descrivendo ora l'animo tormentato del cavaliere, ora quello battagliero del suo scudiero, ora quello stolido del fabbro, ora quello ingenuo, e fiducioso, dei guitti che scampano, provvisoriamente, alla Morte. Ognuno di noi veda di riconoscersi in ciascuno di essi, anche se non ho dubbi circa il fatto che il regista si riconoscesse nel cavaliere.

Cercando di dare una equilibrata valutazione di sintesi, nessun dubbio, pertanto, che si tratti di un ottimo film, ancora attuale in quanto tratta un tema classico, e, dunque, sempre moderno. Il suo fascino perdura, del resto, anche grazie alle atmosfere che lo rendono simile ad un thriller dell'anima.

In ciò credo stia il fascino del film e la sua perdurante capacità di parlare al pubblico, oltre che di fungere da modello per tutto quel cinema che procedere per "sottrazione", interrogando lo spettatore, da Antonioni, a Kubrick, al Tarkovsky di Solaris o, in parte, anche a Kieslowsky.

E' un film che, al contempo, non potrebbe essere del tutto digeribile per gli amanti del cinema semplice e popolare: ai quali rammento, in ogni caso, come Max Von Sidow abbia interpretato anche Ming nello sfortunato film su "Flash Gordon" ('80), oltre che "L'Esorcista" ('73) e "Non ho sonno" ('01), disbrigandosi negli anni fra cinema colto e cinema pop.

Un po' come umilmente cerca di fare il sempre Vostro

 

Il_Paolo

 

PS: dopo tutte queste recensioni pensavo di prendermi una vacanza, anche per tornare a studiare un po' di cinema e musica "minori". A presto!!

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