A quattro anni da "Fallen Beauty" esce nel 2004 per la Dragonhearth il terzo disco dei nostrani Inner Shrine.
Difficile definire lo stile del gruppo; i fans più accaniti della suddivisione in generi (qui superflua) saranno soddisfatti dell'etichetta : "Ethereal Gothic Metal". La musica proposta è molto elaborata, avulsa da ogni soluzione "accattivante", easy, ma al tempo stesso ascoltabile e fruibile grazie ad una produzione brillante e alla varietà dei pezzi: i brani-chiave sono inframmezzati da tanti frammenti strumentali, tra ambient e classica, che fanno da anticamera appunto ai cinque pezzi principali.
Le atmosfere sono dark, a volte cupe, ma in un modo intimista e spesso originale, colme di pathos ma eleganti. Il disco è un lento e graduale distacco dal Metal tradizionale, che si rispecchia a livello tematico nel difficoltoso e irto percorso di ascesi dalla Materia allo Spirito. Come nel caso dei laziali Void Of Silence con "Human Anthitesis", il terzo capitolo del concept diventa sintesi e vertice artistico al tempo stesso.
Il viaggio si apre sulle note di "Overture In Red", un breve strumentale dove il lento fluire di un flauto dal sapore orientale inizia a generare inquietudine nell'animo di chi ascolta; un rullo pacato e solenne di tamburo annuncia l'inizio vero e proprio del disco: la bellissima: "The Inner Shrine", uno degli ultimi passi del gruppo in campo metal; un mid- tempo introduce un canto gregoriano dal tono apocalittico, solenne ed epico, dove le liriche in latino si instaurano benissimo col piglio veloce della drum-machine e la ritmica serrata delle chitarre. Nel mezzo un duetto tra voce maschile e femminle che annunciano la fine della natura mortale dell'Anima ed il distacco progressivo che si concluderà a fine disco.
La tracce seguenti "Path Of Trasmigration" e "Res Occulta" sono simili musicalmente ma dalla struttura più complessa; la prima è addirittura impreziosita da un mantra di tre minuti cantato da un vero monaco tibetano. Dopo una ballata sofferta ed emozionate, "Soliloquium In Splendor", cantata in inglese questa volta dalla voce maschile, si arriva al brano conclusivo, apice e centro del disco: "Elegiacus in Re Minore", un pezzo del pianista Rachmaninov, riadattato dal gruppo che aggiunge a un cantato a solo della cantante soprano. È uno dei momenti più evocativi di un certo modo colto di concepire il Metal: la scelta di abbandonare i cori che caratterizzavano la prima parte dell'album è anche una scelta tematica: l'individuo durante il suo percorso si è distaccato dalla società (il canto gregoriano era tipico della vita religiosa comunitaria) per abbracciare un canto monodico ricco di pathos (e suonato nella realtà da un singolo pianista).
Anche a livello iconografico gli Inner Shrie dimostrano la propria originalità, collocandosi tra quei gruppi italiani (Void Of Silence, Aborym, la scena black meridionale...) che riescono a dare un carattere nostrano alle loro produzioni: a partire dai testi in latino, lunghi e intricati "mantra" polverosi nella lingua degli avi, ai cori gregoriani (la maggioranza del cantato è affidata ad un soprano femminile), all'aria rinascimentale che pervade l'artwork.
Il lato intellettuale della band di Leonardo Moretti e Luca Liotti, è celato in tutti questi aspetti, la cui comprensione è affidata tacitamente al lettore/ascoltatore, senza inutile sfoggio di cultura (chi ha detto Spite Estreme Wing?). Non un lavoro per pochi in senso stretto, ma un'opera che richiede pazienza per essere sviscerata e assimilata in tutte le sue sfumature.
Carico i commenti... con calma