Una soffusa luce rossa infrange l'oscurita di un palco avvolto da un fumo denso e malsano, sul quale quattro ragazzi dall'aspetto pulito, vestiti con elegante gusto anni '30, mettono in scena il miracolo del rock: era questa l'immagine che davano di sé gli Interpol all'inizio del decennio. Partoriti dal ventre buio e nascosto di New York questa band è stata in grado di coglierne e incarnarne gli aspetti più poeticamente oscuri e meno conosciuti.
"Turn on the Bright Lights", album d'esordio pubblicato nel 2002, ci mostra scorci sudici ma affascinanti, fonte dei toni cupi e rarefatti della band, che gioca sul filo dell'ambiguità non mostrando mai del tutto il suo cuore nero, gemma nascosta. Nell'album si susseguono toni chiari e scuri senza soluzione di continuità, tra pezzi che si nutrono della tenebrosa energia di un basso pulsante, vero padrone del ritmo, melodiose chitarre che dipingono opachi e struggenti paesaggi, una batteria incessante e onnisciente e le liriche del colto cantante Paul Banks, enigmatiche ed ermetiche introspezioni di un animo visionario.
Il disco è un avvicendarsi di affascinanti perle metropolitane, con una prima parte mozzafiato nella quale devono essere citate almeno "Obstacle 1", brano che rappresenta bene il gusto per le tinte chiaro-scure della band e "NYC", pezzo dall'ampio respiro orchestrale che è un appassionato omaggio alla New York sotterranea. Nella seconda parte dell'album il cielo si oscura improvvisamente, ed ecco apparire capolavori come l'adrenalinica e ambigua "Roland" e soprattutto "The New", pezzo più controverso dell'album, che si apre come una delicata mattina autunnale per poi sfumare bruscamente in una violenta e schizoide tempesta di psichedelia.
"Turn on the Bright Lights" ha le sembianze dell'apocalisse ed è forse l'ultima testimonianza di come anche in questi tempi bui possano nascere veri capolavori.
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