C'è poco da dire su questo eppì: suonato da Dio (Aaron Marshall rappresenta uno dei chitarristi più forti della sua generazione), prodotto e mixato/masterizzato in maniera eccelsa (Jordan Valeriote, se non sbaglio, già dietro il mixer per il primo disco dei Counterparts, che ho recensito anni fa), una bella commistione di influenze dal Djent (quello fatto bene ossia Periphery, Tesseract, Meshuggah se si possono definire "Djent") al Progressive Rock/Metal strumentale di alta fattura (echi di quel "Suspended Animation" di John Petrucci qua e là), al Jazz; il disco insomma potrebbe essere definito come un piccolo capolavoro sui generis, ahimè, nonostante la bontà delle loro proposte successive, mai superato dal loro stesso creatore.

Ma qual è la parte vincente in particolare di questo album, tolte queste premesse?

Il suo essere dannatamente "catchy" e melodico, in senso buono: ogni riff e passaggio, per quanto intricato, è facilmente assimilabile e cantabile, ogni fill di batteria è maledettamente azzeccato, il basso, per quanto quasi inudibile, fa il suo sporco lavoro in fase ritmica e gli assoli/lead parts secondo me non hanno assolutamente eguali nel genere, tanto da rappresentare uno standard copiatissimo e super emulato da tante band odierne: "Mata Hari" e "Epiphany", su tutte, rappresentano due veri e propri capolavori di Djent strumentale, oniriche e jazzate al punto giusto con questa 7 corde potente come non mai e dei lead passages talmente vincenti da quasi far gridare al miracolo.

Un disco dove il gusto compositivo, la tecnica eccelsa e la musicalità toccano vette mai più raggiunte perfino dalla stessa band, che ha comunque proposto dischi sempre di alta qualità mai piegandosi al mercato in alcun modo.

Gemma.

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