Dies IRAe

Certo, la precedente recensione di questo (doppio) disco non è passata inosservata, e di questo nuovo lavoro di Iosonouncane/Jacopo Incani si è discusso già parecchio (qui e altrove), ma trattandosi di un'opera tanto complessa, dalle molte sfaccettature, è giusto continuare a parnarne, ora che, a ormai due settimane dall'uscita, non siamo più così a caldo, e gli ascolti si sono accumulati e sono metabolizzati abbastanza per poter dare un giudizio più sereno, libero da opposti estremismi, entusiasmi oppure corsa al ridimensionamento. E, se il gioco del "cita questo, ricorda quello, è arrivato prima quell'altro" è concluso, propongo la mia personale suggestione ed interpretazione, a seguito degli ascolti e di qualche lettura.

Leggendo un'intervista allo stesso Incani, un passaggio riporta queste sue parole al riguardo di IRA:

"IRA è un disco di frontiera, di paesaggi sconfinati e sconosciuti attraversati da una moltitudine le cui vite e voci si mischiano fino a smarrire i propri contorni. Un disco senza speranza perché calato in un momento preciso, nel tentativo vano di fermare una e infinite storie prima che si compiano. Alla luce di ciò e dell'anno appena trascorso può probabilmente suonare come il rantolo finale di un mondo non sarà più lo stesso. O, forse, il primo vagito di un mondo totalmente da definire."

La mia mente vaga di continuo ed è sempre aperta ad accostamenti, associazioni, parallelismi artistici ed affinità intellettuali/concettuali.

Pertanto, subito mi è venuto in mente il visionario capolavoro herzoghiano Cuore di vetro (1976). Queste parole tratte dalla scena iniziale, sulle quali scorrono le note dei Popol Vuh:

"Il mio sguardo va oltre l'orizzonte, sino ai confini del mondo. Il giorno non è ancora giunto a termine, ma la fine è qui, davanti a me.

Il tempo comincia a precipitare, e dopo il tempo, la terra. Le nubi si addensano, il suolo ribolle. È il segno: è il principio della fine. L'estremo limite del mondo comincia a sprofondare, tutto sprofonda, sempre di più. Si rovescia e cade. Cade, continua a cadere.

E rapito da questo vortice, io guardo. Sento un risucchio avvolgermi, trascinarmi, portarmi via.

Io precipito, scivolo sempre più in basso, è la vertigine.

Sì, il mio sguardo ora è fisso su quella cascata. Io cerco un luogo, un rifugio dove i miei occhi possano trovare pace. E divento leggero, sempre più leggero. Il mio corpo si dissolve nel nulla, come ogni cosa attorno a me. Io volo in alto.

E da questa caduta e da questo volo, il primo sussulto di una nuova terra.

Nelle acque, il ricordo di Atlantide.

Io vedo una nuova terra che nasce."

Non è un accostamento blasfemo per me, anzi. Iosonouncane in questo disco, attraverso l'uso di un linguaggio momentaneo ed estemporaneo, riflette sulla moltitudine della modernità e sul concetto, che lui stesso considera relativo e "in movimento", di identità culturale. È difatti un'opera apolide, di certo non si può considerare un'opera "italiana". Considerarla tale, significherebbe limitarne le potenzialità ed i confini.

Herzog, d'altro canto, è un artista che da decenni esplora le profondità di ogni remoto angolo di terra e mare, le culture più antiche o quelle perdute, le lingue più diverse, cerca e vede mondi lontani, viaggia alla ricerca, a sua volta, della moltitudine. Un nomade della visione, uno sperimentatore continuo di linguaggi audiovisivi.

Ecco, io ora voglio considerare IRA come l'ideale colonna sonora di un film post apocalittico di Herzog. Come il viaggio da un mondo vecchio ad un mondo nuovo. Verso la rinascita dalle ceneri e dalle rovine.

La considero, pertanto, una grande opera, da ascoltare e valutare senza superficialità o in modo sbrigativo, come nell'epoca di Spotify si è ormai abituati a fare. E magari lasciandosi andare a personali suggestioni. Dopotutto, l'arte è e deve essere una porta aperta.

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