PREMESSA IMPORTANTE: è chiaro che affrontare un disco degli Iron Maiden come prima recensione della propria vita è un atto di coraggio non indifferente. Se poi il recensore (e dunque il sottoscritto) è ancora un ragazzo giovanissimo, allora la si può chiamare quasi ingenuità. Ma d'altronde non avrebbe avuto senso partire da un lavoro con meno hype attorno, e considero questa una sfida più con me stesso che con gli altri.
INTRODUZIONE: innanzittutto, mi sembra doveroso lodare immediatamente la band per una grande ragione: questo è il secondo doppio album della loro carriera, che segue il precedente The Book Of Souls (che io ho trovato un buon lavoro, a tratti ottimo). Il fatto che una band ormai di sessantenni abbia questo grande desiderio di comporre e produrre nuova musica è affascinante, e soprattutto è lodevole come i loro primi due doppi cd siano arrivati rispettivamente con il sedicesimo e diciassettesimo album in studio, sintomo di ottima salute della band, almeno dal punto di vista creativo. Ma d'altronde, pretendere un nuovo "The Number Of The Beast" è pura utopia; non avere nessuna aspettativa ad anticipare la release significa essere in malafede, perché i Maiden, checché se ne dica, hanno ancora molto da dire, di sicuro molto più di tutte le pseudo-band che circolano oggi e che si spacciano per i nuovi pionieri del rock.
Senjustu (titolo che si può tradurre con “tattica e strategia”) si presenta apparentemente come un lavoro che ricalca lo stile incarnato già da pressoché tutti i lavori post-2000 (compreso Brave New World): canzoni lunghe e complesse – opera soprattutto di Harris – alternate a cavalcate proprie dello stile dei Maiden. Tant'è vero che il disco dura 82 minuti, rivelandosi così il secondo album più lungo della loro carriera (subito dopo The Book Of Souls) Col passare delle settimane e l'uscita delle primissime recensioni, però, si è capito che questo nuovo lavoro avrebbe assimilato al suo interno canzoni molto più varie rispetto agli ultimi dischi (tra cui anche una semi-ballad, quale è “Darkest Hour”). Nel complesso, Senjutsu si rivela essere un album estremamente raffinato, complesso, molto gradevole e che alterna numerose emozioni differenti. Non perfetto, questo è abbastanza lampante, ma è un album che può solo crescere con ripetuti ascolti, e offre 1 ora e 22 minuti di ottima, a tratti grandiosa musica.
L'album si apre in maniera quasi "inedita" per i Maiden: con una title-track lunga più di 8 minuti. Strano, verrebbe da pensare: mai era successo prima di iniziare col brano che dà il titolo al lavoro, e per di più una canzone di questa lunghezza. L'omonima "Senjutsu", però, risulta essere una di quelle tracce che potrebbero tradire le vostre attese: al primo ascolto non mi aveva convinto fino in fondo. Mi aspettavo un brano graffiante, pungente. Una mazzata; in realtà la canzone non è veloce quanto ci si potrebbe aspettare (e volere) da una opening track. Non male, ma forse uno dei brani meno incisivi del lotto, sebbene cresca notevolmente con gli ascolti.
Si prosegue con "Stratego", uno dei due brani il cui ascolto era già possibile prima dell'uscita del disco. Bel pezzo, uno degli unici due che rievoca lo stile classico della band. Non un capolavoro assoluto, ma sicuramente un brano che scorre che è un piacere e, sebbene il mix sia a tratti imbarazzante, la canzone si fa valere, e si rivela essere un validissimo brano, davvero piacevole. Chitarristicamente parlando, canzone da almeno 8.
Si giunge così al primo singolo che ha anticipato la pubblicazione di questo album, e cioè "The Writing On The Wall"; canzone dal sapore vagamente western, il suo sound abbraccia atmosfere più hard rock che heavy metal. Il pezzo però è bello, decolla definitivamente dopo un minuto, dopo un'efficace e sempre piacevole introduzione di chitarra acustica, a cui fa seguito un bel riff di chitarra elettrica. Molto interessante la parte solistica, a detta dello stesso Adrian Smith "la più lunga che abbia mai composto". Sebbene sia un brano abbastanza inusuale per i Maiden, ci sono dei fraseggi che rimandano molto al signature sound della band, che fa sempre piacere ritrovare anche nelle nuove produzioni. Preso singolarmente, il pezzo è davvero ottimo; visto nell'ottica dell'intero album, forse non si adatta alla perfezione.
Dopo le prime 3 tracce, che sono molto utili specialmente per far immergere l'ascoltatore nell'umore del disco, questo spicca definitivamente con l'arrivo del quarto sigillo presente in questo lavoro, e qui si inizia a sfoderare l'artiglieria pesante: "Lost In A Lost World", sin da subito, si propone per essere il primo pezzo articolato dell'insieme; brano da oltre 9 minuti, opera del solo Harris (ovviamente), ha, come prevedibile, un'intro "alla Harris". La chitarra acustica la fa da padrone, con progressioni di MI minore e RE maggiore per circa un minuto e mezzo; di mezzo anche qualche "oooooohhhhhhhhh oooooohhhhhhhhh" che però in questo casonon stonano particolarmente, perchè aggiungono ulteriore drammaticità all'umore della canzone. Poi il brano, come prevedibile, esplode, e si rivela essere una grande cavalcata, una straordinaria espressione del sentimento raccontato nel titolo del brano e anche dal suo testo. Meravigliosa la parte strumentale, in cui le chitarre soliste dipingono affreschi di pura emozione. Nel finale spiccano (ovviamente) ancora le chitarre, straordinarie ed emozionanti. Può solo crescere con gli ascolti, e anche se la produzione lascia a desiderare, le chitarre sono grandiose, stupende. Un brano travolgente, trascinante, una delle migliori canzoni delle loro ultime produzioni. Un altro profondo regalo e sigillo timbrato da Harris. Grazie, davvero. Ma, in fondo, abbiamo solo iniziato...
Per far riprendere l'ascoltatore dall'intensa esperienza appena vissuta, ecco che come quinto brano arriva la canzone più breve del lotto (solo 4:03, più breve anche di "Tears Of A Clown" del disco precedente)
La traccia che mi ha più colpito ed estasiato sin da subito è stata senz'altro "The Time Machine": capolavoro grandioso, senza se e senza ma. Stupenda ed entusiasmante cavalcata in cui quasi tutto è perfetto (produzione a parte naturalmente). Inizio con due chitarre, una acustica e una elettrica, che si doppiano a vicenda. Poco dopo l'entrata di Dickinson, il brano decolla e ci trascina per tutta la sua durata. Sette minuti di grandiosità, e il disco mi piace sempre di più.
Drammatica e disperata la settima canzone, "Darkest Hour", che parla, come già accaduto più di una volta in passato, di Winston Churcill. Canzone estremamente cupa e potente, ci sono dei punti davvero eccezionali; il ritornello si rivela essere stupendo. Grandiosa la parte solista, dove le chitarre offrono un'emozione travolgente. Un grandissimo episodio, firmato ancora una volta da Smith (quanto è grandioso questo chitarrista) e Dickinson e, in effetti, il loro tocco è ben riconoscibile in questa canzone.
Arriviamo così alla triade finale di canzoni che chiudono il lavoro. Una maratona di emozioni, proprio perchè stiamo parlando dei brani più lunghi del disco: tutti e tre superano i dieci minuti. La prima, “Death Of The Celts”, è forse l'unica che necessitava di essere leggermente accorciata. Un bel brano, a tratti ottimo, degli spunti interessanti, ma fra le tre è forse quella che tende ad esaltare di meno, per quanto sia un ottimo pezzo.
Infinitamente migliore è “The Parchment”, straordinaria canzone (con produzione penosa) che sa molto di Medioevo, e ha anche un sapore vagamente orientale. Grandissimo riff di chitarra introduttivo, prima che il brano improvvisamente prenda il volo. E' il brano più lungo del disco, ma i suoi 12 minuti li vale tutti. Straordinaria sezione solista, e l'ennesimo capolavoro firmato da Steve Harris.
A chiudere l'album, un altro brano estremamente ambizioso. “Hell On Earth” è probabilmente uno dei tre migliori episodi di tutto il disco (assieme a “Lost In A Lost World” e “The Time Machine”, parere personale eh!). 11 minuti di tutto, tutto quello che si può desiderare da un brano heavy metal. Canzone contenente infinita classe, mi ha fatto pensare che, sempre per la serie che nella vita non si può prevedere mai nulla, potrebbe essere l'ultima canzone della storia dei Maiden. Se così fosse, sarebbe una splendida chiusura per una carriera altrettanto gloriosa. Gloriosa, proprio come questa canzone.
Un disco molto delicato, che va maneggiato con cura, e che va capito fino in fondo. Se si è delle persone amanti dei brani lunghi e complessi che i Maiden propongono solitamente oggi (come me) e della buona musica in generale, questo album vi offrirà un'ora e mezza (circa) intensissima. E' il disco più particolare e diverso che i Maiden abbiano mai fatto, forse il più variegato, e per questo uno dei più interessanti. Un'ultimissima parola vorrei spenderla a proposito di questa straordinaria ed intramontabile band, che da 40 anni a questa parte offre musica spettacolare al suo pubblico, ma ciò che la rende migliore di tutte le altre è che loro cercano di evolversi ad ogni disco; non cercano ossessivamente di tornare alle loro radici per accontentare i fan nostalgici (qualcuno ha detto Metallica?), ma proseguono un discorso coerente e meraviglioso, che, anche se tutti ci auguriamo che non sia così, potrebbe purtroppo essere giunto al termine con questo diciassettesimo album in studio. Il diciassettesimo capitolo di una storia meravigliosa. Grazie mille come sempre, cari Maiden. Grazie di tutto!
Voto: 85/100
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