Nella prospera costellazione di diademi dell’Universo Iron Maiden per l’estimatore è quanto mai difficile riuscire ad isolare un astro, talmente ricca è la loro eredità musicale. Icona della NWOBHM, salvo pochissimi inciampi, rifiorendo ad ogni decade nella propria creatività, arricchendo album dopo album, tournee dopo tournee il proprio bagaglio coreografico/musicale, la band ha saputo imporsi a pieno titolo nel vertice di ogni empireo targato heavy.

E allora in uno scenario così sfavillante guardare un album piuttosto che un altro tutto è fuorché scelta vana; l’identità musicale articolata nel susseguirsi delle composizioni ha progressivamente modulato l’IO della Vergine di Ferro attraverso la silenziosa maturazione scandita dagli sviluppi della loro creatività.

Uno dei momenti più importanti di questo lustroso cursus honorum va ascritto nella seconda metà degli anni ’80; correva l’Annus Domini 1986 e le tumultuose platee che avevano coronato i fasti di quella pietra miliare dal nome Live After Death, fremevano per la nuova vita che Eddie avrebbe assunto dopo l’opulenza egizia di Powerslave. Una nuova età spiccata da una ultramillenaria traversata storica è così giunta come un turbine nei negozi di dischi il 29 settembre del 1986; dai ricercarti arcaismi degli spiriti egizi alla disgregante multiformità mediatica di un futuro alternativo, Eddie emulandosi cyborg killer rilegge le sue ere precedenti nell’estro futurista scandito dalla policromaticità di composizioni cristalline.

E così chissà quale sbalordimento avrà disorientato l’entusiasmo albare dell’ascoltatore quando l’intro di Cauth Somewhere in time ha letteralmente spezzato via le lineari sonorità di quel fil rouge dei 5 platters precedenti; soffusamente improvvisa la comparsa d’una strumentazione mai vista fino ad allora, quella dei guitar, bass synth pick up esafonici ed altri ritrovati tecnici di avanguardia, irrompendo come una folgore nel mondo del metal, lo hanno colorato con l’ovattata tonalità di infusioni tastieristiche.

Detto così il discorso potrebbe suonare come pura blasfemia eppure qui la ventata di levigazione ha avuto il merito di essere stata intelligente espediente sonoro: puro valore aggiunto ha ovattato minutamente sia gli arrangiamenti in generale che la cura dei testi.

L’imprinting come dicevamo sfavilla con la complessa Caught Somewhere in Time: momento ricorrente in cui Steve Harris malcelerà la sua vena prog inconscia, si aggroviglia in un ginepraio di riff variopinti e cambi di tempo sincopati. Il risultato è quasi un silenzioso lampo intuitivo per la futura creatività dei Tool. A questo inizio elettronico/progressivo segue una diade che risalta le forse mai pienamente ottimizzata virtù esecutivo/compositivo di Adrian Smith. La prima, Wasted Years, apparentemente occhiuta al trend da hit parade metal, rappresenta in realtà un raro esempio di sublime creatività lineare: ripercorrendo nelle liriche le titaneggianti fatiche dell’appena tramontato World Slavely Tour, con i suoi riff l’anima chitarrista degli Iron Maiden rapisce la mente dell’ascoltatore dentro universi dalla sublimità parallela. Il discorso prosegue poi con Sea of Madness, il secondo bastione imputabile alla creatività di Smith; per certi tratti compendiando il discorso iniziato con la track d’apertura si disarticola in un tessuto ritmico amorfo. Trasportato da un geniale muro del suono dal sapore sognante, chitarre sintetizzate disegnano un altro mirabolante esempio di prog concentrato dentro gli standard temporali dei canonici 5 minuti.

Torna, invece, a dilatarsi il minutaggio e assieme ad esso la forma/canzone all’interno dei binari successivi: Heaven Can Wait per certi versi, emulando nel testo quanto il Bassista aveva già detto con Halloweed Be thy Name, si rileva un brano dalla linee esecutive complesse e al tempo stesso sontuose. Sicuramente è uno dei vertici dell’album; da notare in particolare la versatile ugola di Dickinson, vento cadenzato dal sibilo edace qui personalizza con rara disinvoltura la complessità di metriche dalla rara eseguibilità tecnica.

Ed è proprio il fattore esecutivo che riempie di sussulti le emozioni dell’ascoltatore con la corrispondenza ripresa nell’inizio del lato B. Un lento fraseggio ascendente ci introduce a “The Loneliness of the long distance runner”; speculare nel suo grado di complessità a “Caught Somewhere in Time”, il brano divincolandosi in un ritmo forsennato disegna progressioni ritmiche cadenzate magistralmente dal millimetrico drumming di Mc Brain. Nonostante sia stata sostanzialmente snobbata da quota parte della critica e dei fan, assoluta considerazione merita la successiva “Stranger in a strange land”, resoconto storico dell’infausta sorte toccata ad una spedizione scientifica smarrita dai ghiacci del polo e di cui solo pochi superstiti (tra cui chi ispirò l’idea a Smith) poterono raccontare : puro viaggio illusorio dipinto da atmosfere dalle tinte tanto ruggenti quanto sognanti. In maniera ancora più espressiva rispetto a “Sea of Madness”, qui le sonorità convincono con una ricercatezza stilistica di rara fattura e anche qui come nel brano succitato, è il bellissimo breack chitarristico mediano ad imporre momenti melodici di rara suggestività immaginifica.

Segue l’unico momento ascrivibile alla firma (conginuta con Harris) di Dave Murray: Deja Vu’. Anche qui un incipit mellifluo sfocia in un brano, seppur meno articolato rispetto alla media dell’album, tuttavia assolutamente in linea con tutto lo spirito che lo pervade. Anzi qui forse più che altrove sono le liriche a dettar legge, compendiando tra le righe concetti molto meno astratti di quanto un ascoltatore superficiale non possa credere (“Ever had a conversation that you realise you’ve had before, isn’t strange? ‘Cause you know you’re heard it before..).

Ed è sempre sulle orme latenti eppure così ricorrenti di quel prog inconscio che la maestosità più epica disserra il proprio epilogo. Un incedere marziale dal tono grave introduce l’apologia musicale del più illustre condottiero macedone. Nonostante il testo della canzone non sia altro che una rassegna di fatti storici sul conto di Alessandro Magno, Alexander the Great riflette la sontuosità del titolo nella sua fisionomia e per tutti i suoi oltre 8 minuti e mezzo di durata porta avanti una prosa sonora di rara imponenza. Nei lunghi fraseggi strumentali che ne compongono la spina dorsale l’anima della canzone sprigiona un pathos camaleontico particolarmente evocativo dell’antica gloriosità dell’eroe decantato.

Tanta fastosità rappresenta la fine ideale per un album che assieme al suo successore lambisce le soglie della perfezione. Una vera e propria gemma incastonata dentro uno scrigno di gioielli che per tanti anni ne ha ingiustamente sovrastato lo splendore.

Oltre gli orizzonti di chi si ostina a vedere questo lavoro come superflua contaminazione di sonorità commerciali, si può rispondere che invece è proprio la loro ragionata infusione a renderlo uno dei tasselli più intensi nella discografia di una delle band regine del Metal

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