Mi sono accorto, in modo così crudelmente rapido, di essere innamorato più d’ogni cosa dell’immensa capacità di un autore di caratterizzare il protagonista, la carne che soffre e si affanna in un tragitto sapientemente irrigato, in cui sempre l'autore non indugia nella raffigurazione delle fattezze della sua creatura in corrispondenza a ciò che lo circonda. In casi simili accade una cosa strana, ci si rende conto di aver instaurato un rapporto con il protagonista di una sequenza immortalata della sua vita e di essere grati al genio che lo ha messo al mondo.

Il lercio è forse l’urlo più disperato dell’autore contro quello che rappresenta l’ottuso senso di ricerca della decenza obbligatoria a cui un uomo deve far fronte comunque. Ed è qui che egli ci spiattella davanti ai nostri occhi quello che non vogliamo vedere, quello che potrebbe tapparci la bocca. L’opera omnia che descrive al meglio quello che significa trovarsi in un incubo, una spirale discendente che inghiotte senza remore quanto di più luminoso ci si aspetta. 

Bruce "Robbo" Robertson, è un detective chiamato a risolvere un caso di omicidio che vede come vittima un giornalista freelance, nonché figlio dell’ambasciatore del Ghana. Sembra una trama di una qualsiasi crime fiction. Ma non è così. Perché Robbo è il miscuglio più accorato e meglio ideato nel riuscire a iniettare in un corpo solo quanto di più insopportabile ci sia al mondo. Cinico, cocainomane, massone, afflitto da un’amara ipersessualità, malato di un eczema che gli divora gli organi genitali, nonché da un senso quasi naturale nell'umiliare il prossimo, tradendo, picchiando e lasciandosi andare inerme nel mare del vizio, il detective è la tragica risposta alla comodità; non più ridotta ad una causa comune contro il “politicamente corretto”, ma come vera e propria limitazione umana. In questo caso mi viene spontaneo vedere tale personaggio, come qualcosa oltre l’inchiostro sulla carta, grazie alla sua capacità di staccarsi da essa.

Descrivendo il grigiore del suo dramma personale, gli abusi e le sfortune che hanno contribuito alla formazione della sua cattiveria incalcolabile, Irvine Welsh menziona le sue tendenze dittatoriali, dominatrici, senza mai scadere nella violenza spensierata, cosa che lo separa per esempio dai personaggi di altri scrittori del genere (non mi sento di fare nomi a tal proposito). Questi drammi vengono raccontati dalla tenia (l'unico suo lasso di umanità) che ha in corpo – la possiamo vedere “mangiare” le pagine del libro – man mano che questa cresce insieme a lui mentre il lettore consuma l’opera, un miracolo. Evitando con successo di scadere nella cronologia di un personaggio così violento, il lettore si sente parte della Edimburgo più oscura mai descritta. E ad onore di cronaca Robbo non è mai una limitazione della brutalità, nonostante sia molto difficile incontrare un personaggio tanto crudele, in lui non si sente neanche per un secondo l’inerzia di un artista che avrebbe potuto crearlo con l'intento di voler raffigurare un personaggio orrendo con leggerezza. C’è uno struggente senso di sopravvivenza che lo muove fino alla sua drammatica fine, che si riesce a sentire nel momento in cui si apprende per mano della tenia/coscienza della sua infanzia e adolescenza, momenti in cui ci viene dato uno sguardo ad uno dei passati più oscuri mai descritti, dove si innalza l’altare della vera disgrazia di Bruce; il lavoro nelle miniere di un villaggio composto da esseri laidi e vuoti, dove i tragici eventi della sua vita forgiano il suo carattere, da cui si viene a sapere della sua colpa principale per cui venne chiamato “lercio”, del suo unico vero amore (Rhona) e l’origine della sua nascita. 

Qui incomincia ad essere scomodo per il lettore la sua posizione “originale” e avverte di aver incontrato almeno una volta un personaggio simile nella sua esistenza. Sente il bisogno di voler piangere per costui e sentirlo incredibilmente vicino. Ma lui si è già staccato dalla carta. La sensazione non è quella di aver letto Il lercio, ma di averlo, per meglio dire, incontrato, ospitato, capito. Così ciò che si sta leggendo non è più una cronaca del grottesco ma l’opera di un trascorso germinativo, più di ogni altra cosa umano. E’ il sangue di uno scrittore finalmente capace di smuovere la compostezza di un ideale comune ormai incapace di concepire la fiction come un’estensione di ciò che è la realtà, essendo allo stesso tempo maligno oltre l'immaginabile, ironicamente perfido (alcune “pensieri” di Bruce sono cattivi quanto esilaranti) e incredibilmente onesto. L'empatia è inevitabile. 

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