Ci sono film Ghibli che sono sulla bocca di tutti (banale dire “quelli di Miyazaki”). E poi c’è lui, la gemma nascosta, campione d’incassi giapponese nel 1991 poi mal distribuito nel mercato occidentale e tutt'oggi poco calcolato.

“Film che di Ghibli ha solo il marchio”, questo il pensiero dello spettatore medio che è confinato nello stereotipo “Ghibli=fantasy” e ci associa personaggi stravaganti, mondi fantastici, animazioni sgargianti. Ma Ghibli è anche altro, il maestro nell’ombra, il realismo animato, la carne, il sudore. Il sangue. Isao Takahata il nome, “La tomba delle lucciole” l’opera che segnò un distacco netto, che dimostrò che l’animazione era in grado di svincolarsi da qualsivoglia pretesa infantile, in grado di tingersi del più cupo dramma. Ma Takahata non si è fermato qui, ha costruito una carriera encomiabile, all’insegna dell’onestà artistica e della rappresentazione di fotografie del Giappone. Fotografò la società giapponese nel bizzarro e sottovalutato ‘Pom Poko’, catturò gli istanti più banali di una famiglia tipicamente giapponese nel gioiellino ‘I miei vicini Yamada’ per poi costruire una macchina nel tempo e buttarsi a capofitto nel medioevo arcaico con la principessa splendente, suo canto del cigno e testamento artistico.

Omohide poro poro’ (letteralmente "Ricordi goccia a goccia") non sfugge alla regola e dipinge con maturità il Giappone a cavallo tra due decenni, gli anni ’60 e ’80. La storia è quella di Taeko, giovane donna, single office-lady di città che in occasione di un suo viaggio vacanziero in campagna si trova improvvisamente catapultata nei suoi ricordi infantili, apparentemente senza motivazione alcuna. Ed ecco quindi che con un montaggio che rifugge completamente la linearità temporale ci vengono presentati due piani paralleli, il Giappone dell’infanzia di Taeko e del boom sessantino, che importava prodotti dall’Occidente, dalla musica dei Beatles agli alimenti che non sempre trovavano adeguato riscontro (come viene mostrato nella scena più iconica del film) e quello anni '80 in cui le tradizioni di un retaggio passato si scontrano sempre di più con la modernità urbana incombente e dove una Taeko ormai sull’orlo dei trent’anni deve prendere quella svolta definitiva della sua vita.

I flashback presentati nel film (prima mediante un flusso di coscienza dei pensieri della protagonista, in confidenza stretta con lo spettatore, e poi esternati sotto forma di racconto al giovane contadino Toshio, suo cognato e consigliere) non seguono apparentemente alcun senso logico, sono rievocazioni emergenti in maniera casuale a seguito di piccoli dettagli, un casco di banane in una bancarella, uno stralcio di discussione tra madre e figlia. E’ tuttavia impossibile non perdersi nella bonaria malinconia che Takahata vi sa imprimere e negli enormi picchi di delicatezza che vengono raggiunti, come quando viene affrontata la questione della mestruazione infantile e corredo di sfottò e prese in giro scolastici, gustosissimo momento, non l'unico.

Questi flashback illustrano la caratterizzazione di Taeko, una normale bambina figlia del boom economico, viziata e dalla voglia di apparire una “brava” agli occhi della società. Una “finta” e stucchevole carineria che si porterà appresso anche nell’età adulta (e dalla quale dovrà inevitabilmente liberarsi per poter compiere il grande passo) quando mostrerà frivolo entusiasmo davanti alla campagna e il faticoso lavoro dell’agricoltore, perché il film non vuole essere un’esaltazione della natura rurale: Takahata evidenzia bene come la natura dal suo appeal turistico sia in realtà artificiosa, frutto dei contadini che l’hanno modificata nel tempo per soddisfazione delle proprie esigenze.

E’ insomma un film che analizza una serie di tematiche molto interessanti tutte legate brillantemente tra loro: una tale ricchezza concettuale che non ho più visto nel cinema di Takahata, forse neanche nell’animazione tutta. La sceneggiatura è parzialmente farina del suo sacco per la parte adulta; il regista costruisce tutto un presente che è in continua comunicazione con l'infanzia, invece tratta da un manga nel quale è narrata in maniera frammentaria, con le diverse scenette della vita quotidiana di Taeko slegate tra loro. Il risultato complessivo è a dir poco ottimo: come disse lo stesso Miyazaki: “L’unico che sembrava avere le potenzialità per trarne fuori un film era proprio Takahata”).

Ultimo ma non per importanza aspetto da segnalare è lo stile visivo. Una caratteristica di Takahata che si tende particolarmente a sottovalutare è che la sua carriera è stata anche votata ad uno sperimentalismo grafico che ha inseguito il minimalismo, la sottrazione. Una scelta attuata per ovviare ad una carenza da disegnatore, diventata strumento di grande potenzialità espressiva, come dimostra "La storia della principessa splendente". Ma i semi di questo percorso sono contenuti qui, più precisamente nelle scene riguardanti l’infanzia di Taeko dominate da colori bianchi, tratti accennati e bordi sfumati (a simboleggiare la parziale ineffabilità delle memorie a noi lontane). La componente del presente è invece caratterizzata dallo stile ghibliano convenzionale, dove convenzionale sta per paesaggi lussureggianti e colori caldi e brillanti. Di grande impatto inoltre l'espressività dei personaggi ottenuta mediante il pre-recorder dei dialoghi (bocca e movimenti facciali dei personaggi vennero realizzati dopo). Grande punto a favore del realismo del film.

E’ il caso di dirlo: l’occhio ringrazia, la mente elabora, il cuore sussulta per la densa esperienza avuta con questo peculiare (per tematiche e storia in primis, ma anche per musiche: frequenti i canti e melodie agresti di provenienza est-europea, altra grande sferzata di originalità) ed empatico gioiellino dell’animazione giapponese.

Carico i commenti...  con calma