Terzo album di carriera (1989) per i talentosi It Bites originari della Cumbria, piovosissima regione a nordovest dell’Inghilterra in affaccio verso l’Irlanda. Fu l’ultimo lavoro prima di un lungo iato, durato quasi vent’anni e per fortuna terminato col quarto disco e poi il quinto, a quel punto però con una formazione un po’ diversa.

Il disco vale più o meno i due che l’avevano preceduto, rispetto ai quali è in generale decisamente più pesante, più hard rock. Risalta egualmente, in ogni caso, quel particolare progressive pop rock decisamente specifico di questa formazione, debitrice di tutti i soliti grandi nomi del settore che hanno fatto scuola negli anni settanta, al contempo capace di distillare un indubbio proprio stile e un peculiare, riconoscibile suono. Ed anche un encomiabile equilibrio, non esagerando con passaggi virtuosi, assoli troppo lunghi, arrangiamenti compiacentemente arzigogolati.

Come sempre è curatissima la parte vocale, sopra la media in quanto a coralità e pure “gaiezza” rispetto agli usuali parametri di questo sottogenere del rock che spesso distribuisce malinconie profonde e soprattutto un prendersi sul serio stucchevole. Vale a dire: niente testi fiabeschi, creature mitologiche, “Total Mass Retain” e altre simili frasi snob per questo brillante quartetto fuori dal tempo, dalle mode, da tutto.

Un grandissimo brano è ad esempio “Underneath Your Pillow”, costruito su un’accattivante sequenza ritmica di synth sulla quale si sviluppa una melodia vocale che viaggia su progressioni di accordi quanto meno raffinate, a sostegno di ricercate armonizzazioni nei ritornelli.

Till the End of Time” è sfiziosa perché trattasi di un rock blues Zeppeliniano messo giù un po’ di traverso, come lo eseguirebbe Frank Zappa; peccato per la batteria in stile anni ottanta, rigida come un paracarro qui come grosso modo dappertutto. “Sister Sarah” è ancora più stuzzicante, essendo un terremotante hard rock masticato per bene dalla agilissima chitarra elettrica di Francis Dunnery.

In “The Ice Melts into Water” viene data via libera alla particolare emissione vocale dello stesso Dunnery, che può anche non piacere come stile e timbro, costituendo forse l’appiglio a cui attaccarsi per non provare interesse per questa band. Il brano è una estesa e composita ballata, come d’uso per loro sghemba e iper arrangiata, la quale in certi passaggi richiama i 10cc di “I’m Not in Love”, altra lontana ma sicura ispirazione per gli It Bites.

Ciò che rende imperdibile l’album è l’ultima traccia (assente nell’LP, presente solo nel CD), un quintessenziale capolavoro. Dedicata e intitolata al compianto padre di Dunnery (“Charlie”), trattasi di uno strumentale di quasi otto minuti, diverso da qualsiasi altra cosa degli It Bites, del progressive, della musica rock. Il frontman si mette la chitarra elettrica in grembo, molla il plettro e passa a suonarla picchiettandola coi polpastrelli di entrambe le mani, con una tecnica “tapping” davvero di suo stretto monopolio. La mano sinistra nelle corde più gravi, quella destra in quelle acute, creano insieme un mirabile arpeggio con melodia incorporata, costantemente sostenuti da una (singola) ripetizione creata con l’effetto delay, accentuata dalla sua disposizione al lato opposto del panorama stereo. Verso metà brano si aggiunge poi una chitarra solista, ad arricchire la musica e il pathos. Lo struggimento e il dispiacere per la perdita del genitore vengono superbamente ricreati da questa solitaria performance del bravo musicista inglese, che più di tutte le altre tramanda a noi la grandezza e l’unicità dei suoi It Bites nel panorama internazionale della musica rock.

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