Per questa volta al ritorno dall’oblio di una formidabile formazione degli anni ottanta corrisponde un prodotto godurioso e pienamente soddisfacente. Cambiano un poco le cose all’interno di questo loro quarto album, datato 2008 e distante diciannove anni dal terzo.

Non vi è più infatti il talentuoso chitarrista e cantante Francis Dunnery, che però viene sontuosamente avvicendato dall’ottimo musicista irlandese John Mitchell, in possesso della stessa perizia strumentale e di una voce invero diversa, meno caratteristica e “acida” di quella del suo predecessore, più calda e romantica. Mi ricorda (in meglio) quella di Neal Morse.

Infaticabile quasi come quest’ultimo, Mitchell si divide fra It Bites, Arena e carriera solista. Ha l’aspetto paffuto e ordinario di un gestore di negozio, pettinato e anonimo, ma invece viaggia alla grande come musicista, mostrando di integrarsi bene nello stile It Bites. Stile che prevede un progressive lontano da classicità e medievalismi, sovente vicino al rock duro e soprattutto pervaso di cori dallo stile peculiare.

L’intesa con l’altra mente sopraffina dei Bites, il mai abbastanza considerato tastierista Robin Beck, è ottimale e fruttuosa. Il disco suona benissimo, è generosamente lungo (80 minuti, gli ultimi dieci di bonus… di più non si poteva per un cd singolo) e vario, bello sin dalla copertina.

I brani migliori, quelli per cui definitivamente “vale la pena” ascoltare, playlistare, comprare, mi appaiono essere:

_La traccia due “Ghosts”, una tumultuosa cavalcata hard rock con Mitchell che sfodera il suo timbro più roco. Fantastico il timbro a’la Guardiano del faro di Beck, specialmente nel break strumentale centrale, preludio di un guizzante solo di chitarra.

_La numero sei “The Wind That Shakes the Barley” (titolo molto folk), una mini suite di otto minuti con pregevoli, liriche sezioni lente, cantate benissimo, impreziosita da un fantastico duetto chitarra/synth dal sapore fusion e caratterizzata dalla solita cura per cori, contro cori, contrappunti vocali.

_ L’altra suite “This is England”, piazzata come undicesima ed ultima traccia prima dei due bonus ed estesa fino ad oltre i tredici minuti. Il suo inizio è toccante: voce melodica su tappeto di tastiere e sembra pari pari una cosa dei Prefab Sprout, autenticamente emozionante, lo stile vocale essendo proprio quello del geniale Paddy McAloon! Poi la canzone si stratifica con l’arrivo prima di un organo molto ritmico, poi della batteria e infine della chitarra solista. Stacchi, cambi d’atmosfera, contro cori, tempi dispari, altro organo questa volta ecclesiastico… tutto il cucuzzaro del bravo gruppo progressivo stira per il lungo il pezzo, mantenendolo interessante senza bisogno di assoloni interminabili, affastellando idee diverse una dopo l’altra come sanno fare gli assi di questo genere. E gli It Bites, modestamente, lo sono.

L’album in definitiva non ha fillers. A parte le due suite, gli altri episodi in ogni caso vanno dai quattro ai sei minuti, spesso compatti e privi di mirabolanti variazioni e divagazioni strumentali. Ogni brano ha i suoi meriti e, grazie in particolar modo alla presenza del membro fondatore Robin Beck ed ai suoi mille suoni di sintetizzatori adoperati secondo personale approccio, tramanda quel caratteristico suono It Bites, a cui si adegua di buona lena la chitarra ispirata di Mitchell.

C’è il vizio diffuso, il partito preso di non dare mai alcuna chance alle reunion dei “dinosauri” del rock dopo qualche decennio. Ciò è azzeccato la maggior parte delle volte, ma non sempre e comunque. Vi sono delle eccezioni, e questo ritorno in piena forma degli It Bites ne è un esempio.

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