Una strada in pendenza su di un isola greca, all’orizzonte il mare e il cielo cobalto. Lungo il ciglio le tipiche abitazioni bianche, una sensazione di calma e di silenzio, solo il fruscìo di un vento secco pare inondare l’atmosfera mediterranea. La foto è stata scattata da Ivano molti anni fa durante un viaggio in terra ellenica e custodita gelosamente in previsione di un disco che finalmente giunge nei negozi il 4 ottobre 2011.
“Decadancing” è il suo ultimo lavoro. L’ultimo in ordine cronologico, l’ultimo perché è Fossati a volerlo, l’ultimo perché è proprio Fossati a non volerne incidere altri dopo di questo. Ce lo ha dichiarato molto serenamente lui stesso, con la convinzione e la cocciutaggine ponderata di un genovese d.o.c.g. quale è, in diretta durante la puntata di una famosa trasmissione condotta da un suo conterraneo ligure, non il 1° di aprile, ma il 2 di ottobre in una calda serata di un estate teoricamente finita ma ancor presente ad azzannare l'ombra di un reticente autunno. Infatti come un pescione d’inizio aprile, lì per lì uno pensa alla supercazzola e si fa due risate in barba alla noia della domenica sera, poi fa seguito la fase di sorriso finto che si spegne pietrificando lentamente l’espressione; non è uno scherzo, è tutto reale. Fossati non è tipo che scherza, almeno sul suo lavoro, lui è un professionista serio, lo è sempre stato. Ed ecco che penetra come una lama assassina la rassegnazione, lo scacco matto in poche mosse, i 120 punti del cappotto a Briscola, il rigore di Baggio calciato alto, in finale contro il Brasile nel 1994. Un miscuglio di strane sensazioni negative e intollerabili. Deve avergli preso uno scoramento tremendo a quest’uomo per ripudiare ciò che ama di più. Classe ’51, 60 anni compiuti in settembre… demenza senile precoce? No, no, non è questo il motivo. Si è stancato di suonare? Di comporre? Di scrivere? Molti a 70 anni se non addirittura oltre, sanno dare ancora gran filo da torcere a parecchi segaioli di primo pelo. Insomma dai sarò sincero: De André a 58 anni ci lascia le penne devastato da un cancro, senza mai mettere fin lì in discussione il suo operato e la bramosìa di proseguire a deliziarci con le sue perle, mentre questo tutto d’un tratto se ne vien fuori a stroncarsi la carriera da solo, come se non contasse più nulla. Poi di conseguenza ti compare davanti il faccione incartapecorito di Vasco, quello tumefatto da un ex acne secolare di Ligabue e quello eterno fanciullesco dell’ex borgataro Ramazzotti e ti incazzi ulteriormente pensando con chissà quali puttanate usciranno questi negli anni a seguire. Un po’ ti girano… Ma con un groppo in gola e con il senno del poi, credo si possa e si debba pure mestamente accettare le volontà di un grande personaggio che decide di appendere la chitarra al chiodo.
Fossati ci metaforizza quel percorso in discesa come una via di fuga, un andare oltre ciò che ora è e non è detto che potrà essere e tutto inizia ad apparire più chiaro. La consapevolezza di una smisurata passione che non potrà garantire in eterno, una passione lunga 40 anni che si ferma su quel fazzoletto di strada chiara. Dinanzi c’è il resto, si annusa realmente la sua voglia di fuggire lungo quella discesa, spogliato di scartoffie, di strumenti, di contratti, obblighi e lontano dal vuotismo imperante di un mondo in balìa dell’irrazionalità e dello sfascio etico, per inebriarsi di nuovi abiti rinfrescati da quel vento del domani. Quasi tutti i brani ruotano intorno a quella strada, a “La decadenza” globale e al suo addio professionale, il tutto minuziosamente descritto, sotto diverse sfaccettature in pezzi come “Quello che manca al mondo”, “Laura e l’avvenire”, “Settembre”, “Nella terra del vento”, “La normalità”. Sarei banale se dicessi, questo è veramente un gran bel disco, ma è la verità, non ci sarebbe altro da aggiungere. Un disco gradevolissimo, fresco, scurrile e allo stesso tempo riflessivo e composto, alternato da ballate, pezzi pop-rock leggeri, e delicati assoli con il pianoforte, il tutto farcito con la sua sempiterna artigianale esperienza, da quel tocco raffinato ed elegante come ci ha sempre abituati, sincero fino all’ultima delle strofe accarezzandoci nella sua complessità con quel retrogusto un po’ amaro, per tutto ciò raccontato fin qui.
E' più che sufficiente osservare le copertine di molti suoi album, per capire che per il cantautore genovese, il viaggio è sempre stato al centro del suo pensiero e della sua produzione. Il suo album d'esordio del 1973 si intitolava "Il grande mare che avremmo traversato" e la title track narrava così: "Guardo laggiù il mare. Oltre la città il mare. E rimango a pensare cosa c'è più in là del mare... ...che bisogno c'è di partire per poi non pensare che a tornare... ...partire, qui davanti a me c'è il mare, ce la potrei fare". Così finalmente giunge l'ora, Ivano in quella foto non poteva che incarnare al meglio il suo desiderio e inizia la determinata corsa lungo la discesa con un biglietto di sola andata per cavalcare finalmente il gigante azzurro.
“Eppure mi piace tutto questo futuro e anche il tempo sprecato che non vedo già più. Io e te, in mezzo al mondo, siamo un pugno di fiori. Ora passa la notte e come senti, non piove più.” Con quest'ultimo passaggio, esce di scena un altro importante pezzo di una gloriosa generazione di cantautori, che hanno consegnato alla storia recente, una sostanziosa fetta dei più onorabili capitoli musicali e artistici di casa nostra.
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