Ascoltando “Panama”, brano traino dell’album uscito a inizi 1981 “Panama e dintorni”, mi son chiesto più volte il significato del termine “Mamacita” e nella mia innocente ignoranza, ho sempre avuto la convinzione che fosse un bizzarro nome femminile. Il protagonista in viaggio sull'apatica imbarcazione che lo trasportava verso il punto di congiunzione delle due Americhe, ne aveva invece ben donde di pronunciare questo termine, nei confronti di qualche avvenente signorina di passaggio per il mondo. E’ in pratica un modo come un altro per dare un apprezzamento un po’ colorito a una piacente ragazza; come dire “Bella f…a”. “Panama” in odor di reggae, ma retta da un’ossatura indiscutibilmente pop, con percussioni molto marcate, mi ha sempre affascinato molto, soprattutto per l’ambientazione stressante e annoiata, nella quale si celano un manipolo di personaggi non identificabili, compreso il marpione di fama e rango sicuramente poco attendibile. Una lunga e interminabile traversata che inizia a Londra dove questo anonimo trafficante di esplosivi, corrompe il Capitano della nave per far trasferire dall’Europa la sua discutibile merce a qualche squadra di guerriglieri rivoluzionari sudamericani, o come li chiama lui “fuoriusciti”.

Fossati in quest’opera si avvale degli arrangiamenti del tastierista soul-jazz americano Steve Robbins, che collaborerà nei decenni successivi con artisti del calibro di Robert Palmer, Sting, Irene Cara e gli Special E.F.X.

Coglie l’occasione per reinterpretare magistralmente, la lenta ballata “La costruzione di un amore”, scritta nel 1978 per l’allora compagna Mia Martini. Pregevoli venature rock vengono manifestate nei brani “J’adore Venice”, altro celebre pezzo che verrà magnificamente stravolto 12 anni dopo in versione jazz, nel live “Carte da decifrare” e in “La signora cantava il blues”, titolo usato nella propria autobiografia dalla celebre interprete statunitense degli anni ‘40 e ‘50 Billie Holiday, alla quale il brano è dedicato. “Boxe” e “Questa guerra come va?”, sostenuti da melodie leggere e di più facile presa, sono brani più riflessivi nel quale i protagonisti si confrontano con le difficoltà della vita, mentre “Stazione” ricalca sobriamente quel pop malinconico usato in altri suoi brani negli anni ‘70 e ci catapulta in un surreale contesto metropolitano, in cui gli individui sono costretti a vivere sottoterra, perché “Chi ha visto sopra dice che a Roma non si arriva più, che non è meglio fuori, tanto che è tornato giù“. “Se ti dicessi che ti amo”, è la classica canzone d’amore contorniata da sprazzi di progressive, con un prolungato assolo di flauto, che ci accompagna verso il finale dell’album.

“Panama e dintorni” si scosta di qualche passo, dando l'idea a udito di un prodotto più curato, dal precedente più trasognato e disinvolto “La mia banda suona il rock”, in cui Fossati godette della consacrazione con la ripudiata title track, da lui ritenuta pesante denigratoria ombra di altri suoi capolavori futuri, meno commerciali. Queste opere ancora lontane, tracceranno un impronta più concreta dando modo alla sua voce di sposarsi perfettamente con quel personale stile più elegante e raffinato. Un Fossati questo del 1981, non ancora maturo, ma certamente rodato, artefice di un più che dignitoso lavoro, che da il via alla delineazione della quadratura del cerchio, unendo saggiamente un particolare linguaggio introspettivo a intelligenti e fresche sonorità, tra le più innovative in Italia nei primi anni ‘80.

E’ esaltante come i nostri storici cantautori negli anni ‘70 e ‘80, a differenza di quelli di più recente anagrafe, abbiano spesso affrontato con minuziosità e stravaganza, tematiche relative al viaggio o ambientazioni in località di qualsiasi posizione geografica, come a voler comunicare che la concezione di allontanamento anche solo metaforica, possa essere un affascinante modo per venir fuori dalle angosce e dalla monotona quotidianità che l’esistenza ci propina. Penso a “L’isola non trovata”, “Amerigo” o “Argentina” di Guccini, “Rimini” di De André, “Titanic” e “Viaggi e miraggi” di De Gregori, “Sudamerica” e “Genova per noi” di Conte, “Washington” di Dalla, “Sestri Levante” o “Polo Sud” di Vecchioni, “Messico e nuvole” di Jannacci. Se ne potrebbero citare a iosa, ma concludo qui con la speranza di non veder mai affievolire la fiaccola di questi poeti maledetti del nostro tempo, dalla straordinaria capacità di saper andare oltre e di poter condurci ovunque.

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