Quello che mi accingo a scrivere è innanzitutto un memento per un genere cinematografico che ha generato, nei decenni passati, tante pellicole importanti nella storia del cinema. Precisamente faccio riferimento a quelle opere, di provenienza statunitense, dedicate ai bikers che sfrecciavano sulle strade a bordo di motociclette potenti. Film così hanno sempre riscosso un consistente riscontro commerciale, anche perché la moto è stata considerata un veicolo di grande fascino, proprio per il binomio fra il mezzo e la velocità, il richiamo alla libertà di movimento che non poteva lasciare indifferente il pubblico giovanile. Se il capostipite di questo filone è stato "Il selvaggio", che nel 1953 lancio' Marlon Brando nello stardom hollywoodiano e lo rese una delle icone pop del Novecento, tanti altri titoli si aggiunsero poi. Si giunse, nel 1969, alla pellicola "Easy rider" di Dennis Hopper che inaugurò la stagione dell'altra Hollywood e, per venire a tempi più recenti (2004), "I diari della motocicletta" imperniato sugli anni giovanili di Ernesto Che Guevara. Un lungo elenco, dunque, ma questo che segnalo è finito sicuramente nel dimenticatoio. E direi giustamente (spiegherò poi le ragioni) se non fosse che occorre ricordare certi flop cinematografici proprio per vedere come e cosa non si deve fare quando si realizza un film.
Sto parlando di "Nuda sotto la pelle" (titolo originario "The girl on a motorcycle" ), diretto da Jack Cardiff nel 1968 e distribuito in Italia l'anno successivo. Tratto dal breve romanzo "La motocyclette" di André Pieyre de Mandiargues, ci narra in buona sostanza un banale adulterio. La protagonista è Rebecca (interpretata da Marianne Faithfull, al tempo musa dei Rolling Stones) in procinto di sposarsi con un placido e noioso professore svizzero (e già qui si incappa in uno stolido stereotipo, come se occorresse essere svizzeri per dimostrarsi noiosi..). Un bel giorno, casualmente, incontra un professore di nome Daniel (e meglio di Alain Delon nei panni di bel tenebroso non poteva esserci..) e scoppia il classico colpo di fulmine. Una liaison dangereuse, come direbbero i francesi, soprattutto per il fatto gravido di conseguenze dell'idea originale, da parte di Daniel, di insegnare a Rebecca a pilotare una moto. La ragazza pare gradire e allora l'amante ha un'ulteriore alzata di genio: come dono nuziale fa recapitare a casa di lei una nuova fiammante Harley Davidson. Grande sorpresa e, dal momento che il futuro sposo svizzero poco perspicace non obietta alcunché, il regalo viene accettato. E successivamente, una bella mattina, Rebecca di soppiatto lascia la propria abitazione di novella sposa in un paese dell'Alsazia e, a bordo della moto nuova di pacca, si dirige verso Heidelberg (Germania) ove l'amante insegna nella locale prestigiosa università. Follie dell'amore verrebbe da dire, mentre lo stesso Daniel sta discutendo con un gruppo di studenti sul tema del libero amore che, autentica forza della natura, può risultare incontenibile. E così il viaggio da' modo, fra l'altro, alla nostra centaura di rimembrare i momenti felici trascorsi con i suoi uomini. Peccato che il fatto di seguire queste reveries romantiche non si concili bene con la necessaria attenzione da prestare mentre si è alla guida di cotanto mezzo di locomozione, al punto di andare incontro a drammatiche conseguenze per l'incolumità della pilota..
Come lasciavo intendere più sopra, il film risulta sostanzialmente deludente e le ragioni sono presto dette. Intanto l'idea che la protagonista in un film del genere bikers fosse una donna (solitamente relegata a ruoli subalterni ed ancillari) poteva costituire uno spunto interessante, solo che l'idea di partenza non viene adeguatamente sviluppata. Il regista cerca di porre in debito risalto, nelle battute iniziali, la bellezza fisica di Rebecca quando, di prima mattina, si alza completamente nuda dal letto nuziale per recarsi in bagno ad indossare una tuta in pelle da motociclista internamente ricoperta di pelo sintetico (ecco quindi spiegata la ragione del titolo italiano). Sequenza azzeccata (trattandosi della giovane e fulgida Marianne Faithfull) intesa a creare scalpore in quei tempi di liberalizzazione dei costumi. Solo che, per creare un film almeno decente, ci vuole molto altro. E alla fin fine il personaggio di Rebecca passa per un'ennesima conferma dello stereotipo di bellezza bionda, sexy ma un po' svampita (e se ci si attiene a questa logica si dovrebbe dedurre che una donna alla guida di una moto o qualsiasi altro mezzo sia disattenta, pericolosa e fonte di incidenti, pensa un po' .).
Da notare anche come appaiono gli agenti sia francesi, sia tedeschi della dogana non appena la centaura viene fermata. Dall'espressione dei loro volti si intuisce sbigottimento (a quei tempi era inusuale trovare una donna alla guida di una moto) ma anche malcelato disprezzo. Addirittura uno degli agenti francesi, un uomo guarda caso di colore, oltre a profferire battute allusive si spinge ad allungare una mano sul sedere di Rebecca. E a questo punto mi viene spontaneo sospettare il regista Cardiff di dimostrare non solo un certo sessismo, ma pure di avere retro pensieri razzisti (si sa bene che non è una questione di pigmentazione se un uomo non si dimostra corretto ed educato verso una donna..).
E non mancano, in questa pellicola, pure evidenti lacune tecniche. Intanto c'è una certa differenza fra le sequenze in cui Rebecca è inquadrata in primo piano sulla moto e le altre in campo medio e lungo. Nel primo caso è evidente che l'attrice è seduta sul mezzo fermo mentre alle spalle c'è uno schermo su cui scorrono le immagini di una strada trafficata. Nell'altro caso a pilotare la moto non è Marianne Faithfull bensì la controfigura Bill Ivy, pilota esperto britannico che indossa una parrucca bionda sotto il casco. Si può concedere che, quando fu girato il film, gli effetti speciali non fossero proprio sofisticati, però penso che anche un bambino, vedendo la scena finale dell'incidente stradale, si accorga che a volare dalla moto sia un bel manichino (con gran sollievo di Marianne..).
Da tutto questo si potrebbe sospettare che Jack Cardiff, nei decenni precedenti valente direttore della fotografia nel cinema britannico, non si dimostri altrettanto bravo nel ruolo di regista. Che abbia realizzato "Nuda sotto la pelle" solo indotto da elementari necessità economiche (ci sono pur sempre bollette di acqua, luce e gas da pagare..) mentre si stava già chiedendo se e quando sarebbe giunto il momento di andare in pensione?
Inevitabile, quindi, constatare come il suddetto film sia stato relegato nel dimenticatoio. E forse gli stessi attori che vi recitano ne avranno rimosso il ricordo. Almeno Alain Delon, la cui carriera d'attore è stata così ricca di titoli migliori, potrebbe addurre la scusa di averci lavorato solo per banali motivi pecuniari. Invece Marianne Faithfull a quei tempi non era forse proprio consapevole di tale scelta artistica. In seguito, dopo aver rischiato una morte per overdose di eroina nel 1969 e dopo la fine della relazione con Mick Jagger, è ritornata sulle scene alla fine degli anni 70 come ottima musicista rock. Per vederla recitare meglio come attrice è consigliabile semmai andarsi a rivedere un film di qualche anno fa come "Irina Palm": certamente non vi deluderà.
Carico i commenti... con calma