Le contingenze della vita ci cambiano, ci distruggono, ci rendono persone diverse. Malik (Tahar Rahim) ha conosciuto sulla propria pelle la mancanza delle figure genitoriali, dentro e fuori il limbo di una vita di stenti. Analfabeta, povero, solo, si ritrova condannato a 6 anni di prigione. Il carcere è più duro di ciò che c'è al di fuori di esso? Forse no se si riesce a controllare la propria implosività, se si accettano le leggi non scritte di un microcosmo che somiglia paurosamente al macrocosmo esterno. Bisogna adattarsi al "darwinismo carcerario", abbracciare la "legge del più forte", farsi amici gli uomini giusti...

Muri anneriti, stanze squadrate, volti scavati, sguardi vacui. La macchina da presa di Audiard indugia sui primi piani, su movimenti mai geometrici, ma spesso sobbalzanti, improvvisi, quasi a voler ricreare la precarietà oppressiva dell'ambiente carcerario. Perno della pellicola è Malik, evidentemente a disagio, almeno inizialmente, in questo nuovo ambiente. L'adattamento arriverà dopo quello che Van Gennep avrebbe definito "rito di passaggio": l'uccisione di un testimone scomodo per la mala corsa, il cui boss è all'interno della prigione. Malik diventerà una sorta di protetto del boss César Luciani (un ottimo Niels Arestrup), ma non potrà mai dimenticare quell'uomo ucciso su comando. Il suo fantasma sarà sempre al suo fianco, a ricordargli da dove è partito per scalare le posizioni all'interno del carcere.

"Il profeta" è un film oscuro, duro, che non disdegna pugni nello stomaco. Dentro e fuori le mura della libertà non c'è differenza. Audiard costruisce una pellicola in cui mondo esterno e vita all'interno del carcere sono governate dalle stesse identiche leggi di oppressione, violenza e morte. Non c'è buonismo, non ci sono prospettive di redenzione, non c'è futuro, se non in un finale che non è comunque "chiuso", ma che lascia spazio a interpretazioni multiple. La straordinaria interpretazione del protagonista Tahar Rahim, veicola sullo schermo quella che appare come una storia di interiorizzazione del dramma. Il carcere riproduce il mondo reale, con le solite storie di corruzione, razzismo, aggiramento delle regole. Non si può cambiare lo stato delle cose.

Audiard partorisce un cinema monumentale, dove ogni inquadratura pesa come un macigno, forse specchiandosi troppo nella sua bellezza e crudeltà basaltica. Le due ore e mezza si sentono tutte, maestose, necessarie ma digeribili con fatica. Incetta di premi, candidato all'Oscar come miglior film straniero nel 2009, "Il profeta" è un lungometraggio che va visto. Una moralità che non sfiora mai il patetico, che taglia come una lametta. Piccolo grande cult del cinema europeo degli ultimi anni.


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