Non può immaginare quanto pesa la croce che porto sulle spalle, madame. E lo vede questo madido turbante che mi cinge la testa? E’ la mia corona di spine, madame, niente altro che una corona di spine. Posso di certo sentirmi più fortunato, almeno non fa male. E per quanto questa croce possa essere pesante, nessuno mi costringe ad arrancare in salita a suon di frustate, anche se tra il prurito e le nerbate è difficile giudicare quale supplizio sia meno atroce!

Sono spiacente nel doverla accogliere in queste condizioni gentile signora, un posto insolito, una parete fredda resa ruvida dall’umidità. Le sembrerà strano ma questo muro consumato che mi dà l’idea di un’entità vivente che fa fatica a respirare mi fa compagnia. Mentre rifletto all’ombra dei bagliori più accesi della rivoluzione, colgo delle imperfezioni che sembrano muoversi, come tanti molluschi in una corrente o scheletri di farfalle…qualora ne abbiano uno…

Che fantasia malsana regna in questo posto freddo. Il mio carcere, madame, pur non essendo stato condannato da alcun tribunale. Un po’ d’acqua tiepida allevia le mie pene…la mia breve condizionale…come tende velocemente a raffreddarsi, così la malattia si risveglia, e si esprime bruciandomi la pelle. Che paradosso!

Stia tranquilla madame, non ho alcuna pulsione che possa intaccare la sua incolumità…sto rileggendo la sua lettera…breve ma toccante…quel tanto che basta per mettermi in movimento. Si avvicini…non abbia timore…

E da qui parte il confine in discesa che marca il capolavoro. Immaginiamo una linea posta ad una spanna al di sopra della testa del rivoluzionario. Parallela al pavimento, senza punte verso l’alto come un sismografo in allarme che ne evidenzi le emozioni e, stranamente, senza deviazioni verso il basso che ne decanti i dolori morali. Seppur esistano quelli ben visibili della malattia.

Questa linea che descrive una vita piatta, statica, come dovrebbe essere per un uomo costretto a vivere in una vasca da bagno inchiodatovi da una dermatite desquamante, all’altezza della spalla sinistra si spezza, il fendente della Corday e, lentamente, disegnando una discesa molto poco ripida, rasenta il braccio per puntare alla mano che per inerzia regge il foglio. La vita che sfugge per spegnersi su un tavolo verde, un colore freddo che in tal caso può ricordare ad ogni modo la morte. Un breve percorso che parte da una vita informe per raggiungere con relativa lentezza il terriccio umido che accoglie una salma da tumulare.

Il corpo di Marat per metà è ancora caldo. La mano che regge la missiva trasmette gli ultimi impulsi di una vita in fuga attraverso la tensione dei nervi ulnari. Il braccio sinistro è ancora florido, dal colore della pelle che sfiora il giallo, un colore caldo inframmezzato da impercettibili sfumature in ambra che neanche l’oscurità delle ombre ne intacca il vigore. Stranamente il pollice non stringe il foglio spiegazzandone la superficie. E’ stato colto l’attimo in cui la vita si ritira non passando più per le dita.

Dove regna la ferita ancora eruttante, entra in scena la metafora della morte. La mano che a malapena regge la piuma adagiatasi sull’ultimo polpastrello è ormai inerte. Il braccio destro è flaccido, in alcune aree livido, abbandonato verso il basso dove il sangue non riesce a gonfiare le vene della mano, trovando uno sfogo nel varco aperto dalla coltellata. Una striscia rossa che parte dal polso liberandosi verso l'alto è l’ultimo baluginio, l’ultimo sussulto che si disperde nel colore ligneo che lo sta avvolgendo. Un tizzone.

La smorfia sul viso sembra una risata strozzata. Stupore che si tramuta in incredulità. La donna che lui vuole aiutare lo tradisce con una pugnalata. Perpendicolare all’occhio destro reso più lungo dalle ombre del viso inclinato, il coltello che lo ha appena trafitto. La coda dell’occhio che trema nel vedere il sangue ancora fresco stampato sulla lama.

Un peccato veniale commesso dall’autore: la scritta incisa sul cassone. E’ lì che cade l’occhio dello spettatore, prima di confondersi con le liriche avvelenate della Corday, di cui appare solo l’arma. Metafora della codardia. Non c’è spazio per altri protagonisti. L’assassina ha raggiunto l’obiettivo ed ha abbandonato frettolosamente la scena dimenticando, ben visibile, l’oggetto del disonore. E David lo perdoniamo, su.

Mi hai colpito senza che potessi vederti! Senza che potessi reagire! Neanche il coraggio di godere del tuo gesto infame! Scappa! Vigliacca…

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