Tutti gli album di Jackson Browne meritano il rispetto, quasi tutti l'acquisto, alcuni l'encomio, un paio pure l'entusiasmo. Lui è un giusto, il suo posto fra i cantautori americani di prima scelta se l'è conquistato ben presto e con merito. E' una bella persona: onesto, modesto, idealista ma deciso, attivista e generoso per giuste cause e... pure belloccio, il che non ha alcun significato musicale o umano, ma non guasta certo.

Malgrado queste premesse l'ascolto prolungato della sua musica, a mio sentire, provoca un certo tedio: il problema sta nell'accentuata ripetitività, e quindi prevedibilità, melodica... in parole povere Jackson ricorre a frasi musicali molto, troppo ricorrenti, sviluppa i suoi cantati con stile personale ma circoscritto e quindi soggetto alla facile saturazione del gusto, come un gelato troppo dolce, come un film di Woody Allen, come un disco degli Ac/Dc.

Un ruolo in questo ce l'ha anche la sua patria d'adozione (Jackson è nato da questa parte del mondo, in Germania), quella California luogo d'origine di suoni, interpretazioni, arrangiamenti quasi sempre equilibrati, corretti e di classe, alla lunga con un che di troppo nitido e manieroso... La soluzione è accostarsi a questo artista sporadicamente, gustare la sua voce sincera e malinconica a piccole dosi, un disco ogni tanto, sforzandosi di seguire anche le liriche che sono intelligenti e incisive, importanti.

Questo è il suo sesto disco in carriera, all'alba degli anni ottanta. Nel gruppo che lo accompagna svettano  ancora le chitarre e il violino di David Lindley, musicista superbo e vera icona del suono virtuoso californiano. La sua incredibile sensibilità sugli strumenti a corda tocca il vertice nel capolavoro "Call It A Loan", una ballata letteralmente dipinta da un avvolgente e armonico arpeggio alla chitarra elettrica, con un suono meraviglioso.

L'album esibisce in apertura il personale, pacato adeguamento di Browne alla moda imperante in quegli anni (che non era certo il punk, benché molti lo credano o siano indotti a crederlo). "Disco Apocalypse" esibisce la cassa in quattro e cromati riff di sintetizzatore, in un timido ma non goffo tentativo di rendere (per una volta) ballabile e spensierato l'universo schiettamente intimista e riflessivo del nostro.

E' solo una concessione episodica... dalla seconda canzone in poi si riprende colle consuete, crepuscolari, politicamente corrette tiritere di Jackson sull'amore, la guerra, la natura da preservare, le amicizie da coltivare, gli affetti da difendere, la musica da amare e praticare.  Gli strumenti a condurre sono come consuetudine la chitarra acustica o in alternativa il pianoforte, senza mai accelerare troppo, senza mai irruvidirsi, sempre cesellando note, parole e arrangiamenti, aiutato dai migliori esecutori sulla piazza di Los Angeles, gente che si mura nei suoi tantissimi studi per undici mesi all'anno e mette il becco su centinaia di produzioni di successo planetario.

Toccante il testo della lunga "Of Missing Persons", rivolta ad Inara George, giovane figlia dell'amico Lowell, il leaderdei Dixie Dregs venuto a mancare l'anno prima. Ancor più lunga ed emozionante la conclusiva "Hold On Hold Out", dichiarazione d'amore alla futura moglie Lynne, una ballata musicatagli dal suo pianista Craig Doerge e caratterizzata da un doppio e suggestivo finale: quando sembra che il pezzo sfumi sopraggiunge, in assolvenza, un galoppo glorioso di timpani che espande il pezzo in una coda intensa, originale e lirica, degna chiusura di un onesto e stimabile lavoro.  

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