"Jaga Jazzist" è il nome che indica una band norvegese, composta da dieci musicisti, che si divertono a mescolare sonorità jazz con l'elettronica, andando a sfiorare territori apparentemente alieni alla loro formazione culturale, come quelli dell'indie rock. Negli anni passati, infatti, questo ensemble ha dato vita a dischi (si pensi alla serie "In The Fishtank"), in cui la loro musica andava ad incrociarsi con quella di gruppi come i Motorpsycho.
Ascoltando "What We Must", ultimo lavoro in studio della band, però ci si rende conto che qualcosa è cambiato rispetto a questa descrizione. Infatti, pur mantenendo sullo sfondo un'idea di jazz controcorrente, la musica di quest'album abbraccia con forza altre sonorità inusuali e per alcuni versi nuove per la band, al punto che se dovessimo scegliere dei termini di paragone a volte viene in mente il post rock sinfonico dei canadesi Godspeed You! Black Emperor. Questa propensione sinfonica non è di per sé un fattore di stupore, vista la struttura del gruppo che prevede l'utilizzo di decine di strumenti: fiati, vibrafono, basso, chitarre, tastiere, percussioni. Viceversa, sorprende un po' di più l'approccio smaccatamente rock e la tendenza a mettere in primo piano le chitarre, strascicando musiche asciugate dall'elettronica. "What We Must", basato sul demo "Spydberg Sessions", sembra difatti raccogliere e sintetizzare in nuove archittetture sonore il frutto delle esperienze passate dei Norvegesi tramite brani articolati, complessi, con un'inclinazione orchestrale travolgente, in cui si alternano trame fitte, sofisticate, dense, elaborate con numerosi incastri e progressioni, che privilegiano lo sviluppo alla melodia pura e semplice.
Tutto ciò rende difficile catalogare questa musica, dove affiora davvero un po' di tutto dall'indie rock, alla fusion, al progressive in una miscela originale. Semmai è più interessante sottolineare l'alterazione timbrica degli strumenti, dalle chitarre, di cui si è già detto, che con numerosi suoni primeggiano in diverse parti soliste, fino ai fiati (clarinetto, flauto, trombone, sax tenore, tuba, corno) che si alternano ed uniscono, regalando l'idea di una "fusion" sui generis, capace di evocare alternativamente paesaggi nordici e realtà metropolitane. Interessante anche la presenza di isolate sezioni vocali e le raffinate elaborazioni ritmiche, valore aggiunto dell'insieme. I suoni sono ricchi nell'elaborazione, ma asciutti nella resa finale e complessivamente la loro musica è a tratti delirante, intricata, spesso senza tregua, in tensione e con una propensione al crescendo praticamente costante. Forse talvolta risulta un po' cerebrale, dà la sensazione di freddezza e distacco, ma è sempre d'impatto ed alla fine l'ascolto, benché non immediato, elargisce non poche sensazioni. Anzi ogni volta riesce a regalare qualcosa di nuovo, riuscendo anche ad essere spiazzante. Ciò, in tutta sincerità, mi rassicura, perché mi conferma l'esistenza di musicisti capaci di sorprendere il loro pubblico, mai appagati e sempre alla ricerca di nuove strade, forse non facili da seguire, ma di certo sempre intriganti e suggestive.
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