Facendo sfrigolare in perfetta solitudine la sua tromba per 15 secondi, Jaimie Breezy Branch pare raddrizzare l’indice davanti al suo naso nell’atto di domandarci silenzio e attenzione.
Dopo qualche secondo, questa apparente solitudine viene interrotta dal conto del batterista che ci introduce al primo tema dell’album.
Classe 1982, la trombettista approda con “Fly or Die” al suo esordio in quanto titolare. Varca questo traguardo dopo essersi fatta le ossa collaborando con alcuni dei migliori esponenti della scena musicale di Chicago correlata al jazz più creativo (e dall'AACM in poi quella città di jazz creativo ne ha prodotto a badilate): Ken Vandermark, Tim Daisy, Dave Rempis per citare solo i primi che mi vengono in mente.
Nonostante il disco sia stato inciso nella grande mela, dove la musicista attualmente risiede ed opera, la Branch rivendica nella comunità musicale attuale e in quella storica della Windy City le sue radici musicali, sia nel corso di numerose interviste sia nella provenienza dei musicisti coinvolti in questa avventura. Chad Taylor alla batteria e Jason Ajemian al basso costituiscono un tandem affiatatissimo nel creare coinvolgenti groove poliritmici (provateci a non battere i pieidini col funk in minore di “Theme 1” o con la sarabanda latina di “Theme 2”) e nell'ordire tessuti ritmici più irregolari e puntilisti (come ad esempio avviene in “The Storm”). Vista la maestria prodigata sia nel ritagliarsi un ruolo percussivo (arricchendo il già citato elemento poliritmico), sia uno solista (sapendo dispensare delicatezza e rumore con la stessa efficacia) o anche semplicemente per la capacità d’impreziosire la coloritura dei brani, il violoncello di Tomeka Reid risulta un altro elemento centrale nell’economia del gruppo.
Il fatto che le parti solistiche siano principalmente d’appannaggio della tromba della titolare, capace di tecniche non necessariamente ortodosse che accarezzano o strapazzano le vostre orecchie secondo l’esigenza emotiva del momento, e del violoncello non preclude a nessuno la possibilità di prodursi in numeri da far penzolare le mascelle. Siamo davanti a musicisti dalla caratura tecnica sopraffina e dalla capacità d'ascolto reciproco tale da produrre un interplay che fa piangere di gioia.
La maggior parte della musica contenuta in “Fly or Die” é stata creata dal gruppo in occasione dei primi concerti fatti insieme, ma nel corso della registrazione dell’album la Branch ha fatto ricorso ad alcune sovraincisioni per includere le cornette di Ben Lamar Gay e Josh Berman e la chitarra di Matt Schneider, la cui presenza arricchisce alcuni brani.
L’architettura dell’album é organizzata attorno ad alcuni centri gravitazionali sonici dal cui sviluppo sbocciano altre gemme musicali. Un esempio su tutti di questo modus operandi: la parte terminale della briosa poliritmia di “Theme 2” sfocia nei fiati ipnotici e delicati di “Leaves of Glass”, la quale a sua volta termina nella risacca di droni di “The Storm”, che a sua volta dà vita al dolce waltzer ellittico di “Waltzer” (vabbeh, a scanso di equivoci: diciamo senza paura di smentite che il livello di creatività espresso nella musica é inversamente proporzionale a quello espresso nei titoli). Questo gioco di rimandi continuo tra i vari brani mi porta a sentire questo fluire musicale come un’unica suite di circa 35 minuti da ascoltare tutta d’un fiato. L'impressione di un flusso sonoro unico é ulteriormente rafforzata dall'armoniosità con la quale, da un punto di vista del tono emotivo, i brani paiono oscillare tra momenti più allegri e altri più malinconici, quasi ad evocare in questo modo l'opzione espressa dal "vola o muori" del titolo dell'album. In ogni caso, anche nei momenti più malinconici questa musica pare esprimere una vitalità profonda e calorosa, oltre che una convinta gioia di vivere.
Alcuni elementi mi sembrano apparentemente estranei all'architettura sonora della quale ho parlato in precedenza, ma non son per questo meno interessanti: “...meanwhile” -sospesa tra folk astratto e noise soffuso- e la breve vignetta simil-country di “...back at the ranch”.
Posizionata a fine album, l'incedere pacato di quest’ultima miniatura pare evocare un sereno ritorno a casa, quasi a voler terminare su una nota positiva un bel viaggio musicale...che spero sia solo il primo di una lunga serie.
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Stanlio
6 dic 17lector
6 dic 17lector
6 dic 17emme13
7 dic 17Quello che m'interessa é provare a proporre della musica che apprezzo e che penso abbia molta meno visibilità di quella che meriterebbe.
odradek
7 dic 17odradek
7 dic 17lector
7 dic 17