Non è semplice approcciarsi alla scrittura di una recensione sulla nuova opera di un artista che fino all'altro ieri era considerato una delle più grandi promesse della musica mondiale. Ok, l'etichetta di "nuovo Bob Dylan" sapeva tanto di blasfemo (ed il paragone ha probabilmente finito per nuocere al giovanissimo cantautore) ma l'album di debutto di Jake Bugg era davvero bellissimo e fuori dal tempo. Ad esso fecero seguito, purtroppo, un secondo album così e così ed un terzo di rara bruttezza che vedeva il povero ex aspirante menestrello alle prese con elettronica e rap (?!).

Così, l'oggi 23enne Jake, decide - con il suo quarto album, "Hearts That Strain" - di ritornare alle origini, rifugiandosi a Nashville e registrando il disco con un bel manipolo di eroi locali, tra cui: The Memphis Boys, Bobby Woods, Gene Chrisman e l'onnipresente Dan Auerbach.

Bugg riabbraccia la chitarra acustica e si lascia andare alle melodie a lui più care e consone in un disco sostanzialmente da dividere in due metà: la prima più solare e la seconda più dark, cui fa da spartiacque "Waiting", il duetto soul con Noah Cyrus, sorellina di Miley.

Questo disco non è un capolavoro, dentro non c'è nessuna hit, è un lavoro, però, sicuramente più a fuoco e coerente dall'inizio alla fine rispetto al suo predecessore (piccola digressione il rock 'n' roll di "I Can Burn Alone") e che sa tanto di nuovo inizio.

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