Lo so, dovrei parlare di "Dazed And Confused"; di come Jake la scrisse e di come un chitarrista marpione che passava di lì gliela soffiò, per portarsela via a bordo del suo rumoroso dirigibile. Lo so, dovrei parlare dell'ennesima storia di appuntamenti mancati con la fortuna, di meraviglie sfornate nell'ombra a beneficio di ugole altrui... E giuro che, se nel disco di cui voglio parlare non ci fosse musica capace di nutrire le mie orecchie, ricorrerei a piene mani a questa aneddotica, ma questo disco trabocca di suoni da raccontare.
Un trio senza batteria nè percussione alcuna (si esibivano sullo stesso palco sul quale Tim Hardin esplorava soluzioni timbriche affini su un soffice tappeto di vibrafono, e aprirono un concerto di Van Morrison che di lì a poco avrebbe percorso intuizioni simili portandole ad altezze siderali in Astral Weeks). Jake Holmes alla voce e al basso è degno e intenso attore dele piccole drammaturgie sonore che compone. La chitarra solista di Teddy Irwin è una Guild, una chitarra jazz, come il background del musicista, ma il ricorso al fuzz (all'uso del quale è stato iniziato dall'amico Zal Yanovsky, chitarra dei Lovin' Spoonful) ne arricchisce il suono facendo delle sue linee inusuali un gustoso antipasto delle portate sonore che Lee Underwood cucinerà attorno alla più potente e duttile voce di Tim Buckley. La chitarra ritmica di Richie Randle, forse proprio perchè meno personale dei contributi dei due compagni di formazione si rivela il collante ideale, capace di passare da memorie di Charlie Christian a frenesie proto-garage. Le canzoni sono le vere protagoniste. Tra qualche anno la penna di questo giovane songwriter sfornerà il capolavoro dolente e dimesso "Watertown" per Frank Sinatra (in coppia con Bob Gaudio, certo, ma in questo disco ci sono già in germoglio tutte le intuizioni di quello); e provateci voi a sfoderare un repertorio così credibile da riuscire a convincere The Voice a smettere i panni del navigato crooner per diventare accorato e devoto "interprete".
Come Scott Walker, Jake Holmes si è abbeverato alla fonte dello chansonnier francese Jacques Brel, solo che mentre il bel tenebroso si dedica a geniali cover, lui decide di innestare la lezione di Brel in un'improbabile amalgama con la canzone di broadway e con il nascente folk rock. Naturale che con piatti così speziati non tutto funzioni sempre a meraviglia, ma quando la ricetta è ben bilanciata ne escono sapori inebrianti: ascoltate "Lonely", con il fuzz a inacidire le soluzioni armoniche che se rallentate e diluite (a volte diluire e approfondire possono essere sinonimi) condurrebbero fino al maelstrom sonoro del "Lorca" di Buckley. Ascoltate la tensione fragile e ipersensibile del gioco tra arpeggio di chitarra e voce in "Genuine Imitation Life", l'esplosione gonfia di passione del refrain, ed ecco che "American Gothic" di David Ackles non vi parrà più un disco venuto dal nulla, ma solo un meraviglioso figlio illegittimo. Quando parte il piccolo trotto strafottente di basso e chitarra in "She belongs to me", vi aspettereste l'ingresso della voce di Fred Neil perché siamo dalle parti di "Another side of this life". Ascoltate infine il monologo assorto sull'invecchiamento di "Signs of age", a chiudere l'album, e alla fine del tragitto, guardandovi alle spalle, scoprirete di aver percorso in quattro minuti il ponte che conduce dalla Francia esistenzialista di Jacques Brel alla Waterton di Sinatra (quasi meglio del teletrasporto).
Di "Dazed and confused", che vi attende nel cuore del disco, non voglio parlare, non spetta a me cartografare gli spazi del vostro stupore. Non c'è dubbio che non tutto in questo disco sia risolto, che siano più il terreno dissodato e le sementi sparse, che non le messi raccolte. Ma se non vedete solo la bellezza delle farfalle. Se riuscite anche a intuirla nella promessa delle crisalidi, allora questo disco vi aspetta generoso di epifanie.
Carico i commenti... con calma