Immigrazione, tema quantomai attuale. "C'era una volta a New York" (titolo originale "The Immigrant") è un'opera che può servire per meglio comprendere non il fenomeno in se, ma le difficoltà di coloro che per necessità (ma anche scelta) si trovano a vivere in un altro mondo, diverso da qualsiasi altra cosa a cui erano abituati. Il newyorkese James Gray, al quinto lungometraggio, non poteva che raccontare la sua New York e la sua America, da sempre mondo di approdi e partenze e calderone di infinite diversità culturali. In questo caso Ewa Cybulska (una splendida Marion Cotillard) arriva dall'est europeo, dalla Polonia, insieme a sua sorella, costretta a rimanere in quarantena nell'ospedale di Ellis Island a causa della tubercolosi. Per lei servono cure e soldi e trovare un lavoro diventa fondamentale. Bruno (Joaquin Phoenix) si fa avanti per aiutarla nello scopo e la porterà a diventare una prostituta, un destino comune a tante donne che negli anni d'inizio Novecento hanno raggiunto gli States.

Gray prosegue sulla falsariga di "Two Lovers" rimanendo nell'ambito del dramma sentimentale ma aggiungendo lo sfondo storico. Non c'è nulla dell'anima noir di titoli come "Little Odessa" o "The Yards". Con la storia di Ewa, Gray vuole raccontare il mondo contorto di una New York plumbea e sudicia come poche altre volte si è vista nei racconti d'epoca. In ciò viene aiutato da una fotografia virata al seppia e tutta giocata sulla luce delle candele e di interni "caldi". Un lavoro che avrebbe quantomeno meritato una nomination agli Academy. Questo sfondo cromatico è perfetto per inserire le storie dei vari personaggi e delle loro difficoltà. Ewa che fa ciò che fa perchè deve aiutare sua sorella, dopo essere stata rifiutata dalla famiglia che a New York doveva accoglierla, Bruno e la sua autodistruttività appena mitigata dal suo amore per Ewa o il mago Orlando (Jeremy Renner) affascinante per Ewa ma decisamente meno per suo cugino Bruno. I conflitti tra questi personaggi riflettono quelli all'interno di una società disgregata, affannosamente alla ricerca di trascinarsi avanti oltre gli stenti e dove le condizioni di insussistenza sono comuni a chi è appena sbarcato e a chi sfrutta gli sbarcati per fare denaro. Il grande sogno americano parte da quegli anfratti d'appartamento dove tutti potevano comprare a pochi spiccioli la propria passeggera felicità e dall'illusione degli sfruttatori che tutto questo avrebbe realmente portato ricchezza e benessere.

Dietro la sfarzosità della ricercatezza formale "The Immigrant" è in realtà il solito film estremamente classico di Gray, nello stile di regia e nella gestione dei tempi. Probabilmente è il suo film più classico tout court. Lo è anche nella sceneggiatura, che incrocia i sentimenti di tre diversi personaggi sulla falsariga di innumerevoli esempi a riguardo. Lo script non ha però la forza di decollare e lascia aperte situazioni nebulose che trattengono come un'ancora un film che subisce la zavorra di cose non dette, come il rapporto ambiguo che si instaura tra la Cotillard e Renner. Col il senno di poi sembra più un espediente per far esplodere il personaggio di Phoenix più che una coerente progressione verso uno sbocco che poi non arriva mai. La ricercatezza formale e un Gray che rimane contenuto nei virtuosismi sopperiscono ad un plot che ha diversi momenti di stanca.

"C'era una volta a New York" è un grande affresco visivo di uno dei momenti più tormentati nella storia dell'America che usciva dalla Grande Guerra per accarezzare le restrizioni del proibizionismo e che si avviava verso il baratro della Grande Depressione. Il lavoro di Gray risalta questa decadenza prossima, sia nei toni che nel destino che da ai suoi personaggi, tutti sconfitti tranne uno. Di nuovo, il finale sublima quello che in qualche modo era stato telefonato in precedenza, togliendo magia e drammaticità e inficiando anche il lavoro (di nuovo ottimo) di Joaquin Phoenix, che tocca il suo culmine proprio sul finale. Ma potremmo dire che è un po' tutto il cinema di Gray che finisce per essere "statico", nella ricerca della classicità registica e di un'enfasi troppo addossata ai personaggi (un po' una ricorrenza nel suo cinema, da cui si salva "I padroni della notte"). Tutte complicanze che lo hanno relegato a quel cinema che ti concede i grandi nomi ma non il grande pubblico. Non che questo sia sempre un male, tutt'altro. Ma approdato ormai alla quinta pellicola (e in arrivo c'è "The Lost City of Z"), James Gray lascia la sensazione di essere uno che non ha le mani per partorire quel film che va "oltre", come invece lasciava sperare un debutto come "Little Odessa".

6,5

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