Reinserirsi nella società, ricostruire la propria vita, cercare un lavoro soddisfacente, lasciarsi alle spalle quei 16 mesi di carcere e quel dannato furto d'auto. Il 22enne Leo non vuole altro. Il suo amico Willie si farà avanti per aiutarlo e per cercare di attutire l'impatto con quel mondo che per un anno e mezzo non ha più vissuto. Ma lo scontro con la nuova vita sarà inevitabilmente più duro di quanto Leo si potesse aspettare.

A metà tra il De Palma di "Carlito's Way" e lo Scorsese di "Goodfellas", James Gray è oggi considerato come uno dei più promettenti e talentuosi registi americani. Quelli nati a cavallo tra i '60 e i '70: gente come Paul Thomas Anderson, Andrew Dominik, Jeffrey Chandor, Bennett Miller e altri ancora. "The Yards" è il secondo capitolo della sua filmografia, ed è un titolo coerente con un percorso filmico che Gray porterà avanti fino all'uscita nel 2007 del film "I padroni della notte". Da lì in poi l'attenzione del newyorkese virerà verso altri lidi di genere.

James Gray è un nome che non ha mai scaldato troppo gli animi della critica e del pubblico. Le sue pellicole sono troppo "classiche" e lineari per riuscire a scavarsi un varco nel mercato cinematografico odierno. Girare un thriller senza l'utilizzo di CGI o esplosioni a ripetizione sembra diventato impossibile, motivo per cui chi rimane fedele ad un certo modo di fare cinema e magari ha più talento di tanti altri, rimane invischiato nelle retrovie della programmazione con il contagocce, alle soglie dell'anonimato. "The yards", pur non essendo un capolavoro, è un'opera che può essere utilizzata come "film rivelatore" di una realtà parallela alle megaproduzioni del nuovo millennio. Un film che vede la luce nel 2000, cesura fondamentale verso quell'inevitabile appiattimento della settima arte nel marasma dei film patinati, costruiti su misura per il grande pubblico e infarciti di sceneggiature sempre più bambinesche. Estraneo a tutto questo, Gray plasma un noir/thriller dalle caratteristiche ben definite e dai rimandi ai "maestri" fin troppo chiari. Oltre ai già citati De Palma e Scorsese, Gray ha molto della classicità granitica di Clint Eastwood e della poeticità tipicamente metropolitana di Michael Mann. Il lato più oscuro, thrilling, gangster di De Palma e Scorsese che trova il suo fidanzamento nella visione politica e di "denuncia" del vecchio Clint. Perchè ancor prima di configurarsi come un thriller, "The Yards" è un film d'inchiesta, che svela e mette contro il muro i risvolti della corruzione americana, in questo caso nell'ambito degli appalti per le ferrovie e la metropolitana di New York. Ogni mondo metropolitano ha le sue leggi, i suoi codici, le sue violenze e nella "trilogia metropolitana" "Little Odessa", "The yards", "I padroni della notte", Gray scandisce tutto ciò a colpi di pistola nelle buie notti della "Big Apple", una sorta di "città feticcio" per il regista, il quale ha ambientato proprio a New York tutti i suoi film.

"The yards" è un film che ripropone stilemi già visti sul grande schermo, ma lo fa con la consapevolezza di una messa in scena che appartiene solo ed esclusivamente a Gray. Splendida la fotografia notturna e claustrofobica curata da Harris Savides e il ritmo profondamente compassato della pellicola, rimando di quella classicità che sembra ormai perduta. In sottofondo la colonna sonora di Howard Shore, ad enfatizzare ancor di più l'atmosfera drammatica della pellicola. Facile anche rintracciare un discorso del tutto personale nell'analisi della disgregazione interna della famiglia, altro elemento basilare negli altri due film che compongono questa sorta di "trittico" di Gray. Personaggi combattuti tra amori difficili, problemi interni al nucleo familiare e volontà di miglioramento delle proprie condizioni economiche. Sullo sfondo il suono delle pallottole.

Imparata la lezione dai professori del mestiere, Gray rielabora tutto in una forma personale attraverso una regia solidissima fatta di movimenti lenti, dolly e primi piani, sempre esaltando la drammaticità visiva ed emotiva della vicenda. Accanto a tutto questo un vizio purtroppo infiltratosi ormai in gran parte dei cineasti statunitensi: quell'incapacità di allontanarsi da una retorica spicciola che spesso fa capolinea senza che se ne senta la reale necessità. Una sorta di sparata finale per contornare una storia che probabilmente avrebbe reso di più a rimanere nell'ombra del dubbio e dell'infamia. In questo senso il finale degrada verso delle forzature che stridono con tutto l'impianto filmico che Gray aveva creato in precedenza.

Cast notevolissimo con nomi come Joaquin Phoenix, Charlize Theron, James Caan, e l'accoppiata di statuette Ellen Burstyn e Faye Dunaway. Paradossalmente a funzionare di meno è il protagonista, il Leo interpretato da Mark Wahlberg.

Un'opera particolare, personale, con qualche difetto e diversi pregi. Un film e un autore che meriterebbero maggior considerazione.


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