A James Gray va fatto un grande applauso per essere uno dei pochissimi che ha ancora il coraggio di sfidare il mainstream hollywoodiano con film fuori dal tempo. Forse nessuno oggi ha la possibilità di portare sul grande schermo un film come "The lost city of Z", eccezion fatta per quei grandi nomi come possono essere Tarantino e Scorsese che hanno la possibilità di prodursi i film anche da soli. Gray non può farlo e per questo motivo il parto della sua ultima opera, da noi arrivata come sempre con il titolo storpiato in "Civiltà perduta", è stato complicato, tra ritardi, problemi sul set e distribuzione.
Ma perchè questa ultima pellicola di Gray ha avuto problemi nell'arrivare nei cinema? James Gray è un regista tremendamente classico: deriva il suo stile proprio da grandi maestri come Scorsese e Coppola e dal più classico dei cineasti americani viventi, ovvero Eastwood. Le sue prime opere, fino almeno a "I padroni della notte" sono condensati di noir e classicismo. Gray insomma è uno che concede poco al pubblico di oggi: ritmi lenti, un montaggio all'antica, sceneggiature che mettono l'action in secondo piano. Sembra di essere tornati agli anni '70, lontani dal cinema moderno dai ritmi simil videogames, battutine e banalizzazione del mezzo cinematografico (per fortuna che c'è ancora chi si tira fuori da questa degenerazione). Ora, l'ultima opera di Gray era stata "C'era una volta a New York" (anche quì, titolo originale "The Immigrant"). Pellicola in costume nell'America pre disastro del '29. Melò d'annata non proprio da ricordare. Un mezzo polpettone indigeribile per chi non sta dietro ad una costruzione filmica del passato. Al botteghino un annunciato mattone sui denti. Cosa fa a 3 anni di distanza? Cerca di portare sul grande schermo un altro film in costume di due ore e passa, che racconta di viaggi topografici in Bolivia riverberando la cadenza di un Werner Herzog. Nel 2018. Follia. Di nuovo, sapendo che al botteghino il risultato sarebbe stato un disastro. Naturalmente è andata così. Costato una 40ina di milioni ne ha incassati 15.
Inghilterra, inizio '900. Percy (Charlie Hunnam) è un ufficiale dell'esercito con un passato di studi topografici e geografici. Per lui la carriera è importante, ma i suoi progetti vengono stravolti dalla richiesta di tracciare i giusti confini tra Bolivia e Brasile sul precipizio di una guerra per il controllo della gomma. E' anche un modo per riscattare la reputazione della sua famiglia, disonarata da suo padre. Suo malgrado parte. Arrivato nel profondo dell'Amazzonia troverà la natura nella sua cruda ruvidità e forse una città vestigia di qualche antica civiltà. E' la sua "city of Z". Il resto della sua vita sarà la ricerca di questa "civiltà perduta".
Il film di Gray è un'opera sulla fuga e l'ossessione. Una fuga da un Regno Unito retrogrado anche nei suoi ambienti scientifici, una fuga da se stesso e da quel passato che condiziona Percy senza aver avuto voce nel definirlo. E poi la fuga diventa ossessione, ricerca compulsiva di una realtà che forse esiste e forse no: Percy andrà avanti e indietro in Amazzonia, alla ricerca della sua ossessione, della fama e del suo destino, come gli dirà profeticamente la veggente prima della battaglia della Somme durante la Grande Guerra. Perchè Gray inserisce questi viaggi in uno sguardo più complessivo che abbraccia anche i momenti del ritorno in patria, degli scontri con la sua famiglia e sua moglie, una splendida Sienna Miller. Questo "andare e venire" tagliando un po' i tempi classici che Gray utilizza è forse l'unico vero punto debole a livello di scelta filmica, "banalizzando" per evidenti momenti di screentime la parte più interessante, costituita proprio dai viaggi in Amazzonia. Ciò non impedisce al regista newyorkese di costruire un film che non sfugge alla tensione dicotomica tanto cara al suo cinema e alla sua filmografia: quella tra i sentimenti verso la famiglia che Percy è "costretto" a lasciare ogni volta fino a sentirsi uno che ha fallito davanti ai suoi figli, e la spinta verso la libertà quì nella forma del viaggio, della scoperta, nella fuga dal "bigottismo della Chiesa", da un'Inghilterra che 4 secoli dopo la scoperta del nuovo continente chiama ancora "selvaggi" i popoli latinoamericani. Una libertà che però si trasformerà ben presto in costrizione ossessiva e quasi egoistica.
Gray non poteva che raccontare questo viaggio di uomini e dell'uomo attraverso il suo stile. Gli effetti speciali sono sostanzialmente azzerati e ciò che ricrea il pathos di quei tempi è la splendida fotografia, azzeccata come poche altre volte sui film che raccontato l'Amazzonia. Nel prendersi i suoi tempi Gray ha anche la possibilità di scrivere una sceneggiatura abbastanza solida da supportare un film molto complesso. Non dimenticando mai di soppesare l'emozionalità e l'architettura visiva della messa in scena, la verosimiglianza e la ricostruzione storica. Il finale è profondamente simbolico e chiude la circolarità della pellicola, nel percorso di Percy e nella sua personale ricerca, oltre ipotetiche civiltà. Forse Percy cercava semplicemente il suo destino.
Antispettacolare, classico, fuori dal tempo, "passato", kolossal d'autore, "Hollywood" di nicchia. "The Lost City of Z" è il punto più alto della carriera di James Gray, il film che mi fa ritirare la considerazione finale che avevo fatto per "C'era una volta a New York", quando non lo ritenevo in grado di arrivare ad un film in grado di restare anche negli anni a venire. La sua ultima pellicola è un piccolo gioiello di cinema che prova a resistere, che sfiora il pathos toccato da grandi classici che furono. Infatti è passato completamente sottotraccia.
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