Appena finisci di leggere Gente di Dublino capisci che qualcosa nella tua vita è cambiato. E non solo perché hai letto una vetta letteraria fra le più indiscusse, sublimi e immortali di tutta l'antologia moderna, ma perché alla fine dei quindici racconti che la compongono ti chiedi quanto abbia senso continuare a guardare la realtà con la solita semplice, troppo spesso consueta noncuranza. Le domande che ti sei sempre posto in sordina e hai imparato a acquietare ora emergono prorompenti e acquistano una nuova dimensione. Ora ti senti compreso quando rifletti su quanto la vita è finta e artificiale, su quanto è ingiusto che le regole contino più delle persone, su quanto a nessuno importi il lato umano delle cose.
Il messaggio di Joyce è netto: i valori della società borghese sono anti-umani. Ci relegano a un'esistenza di cartone in cui il potere di scelta sul nostro destino è nullo. Non motteggia di alienazione come tanti altri, Joyce, preferisce parlare direttamente di morte. Ecco la cruda verità: il pensiero borghese del nostro secolo è morte.
Joyce fotografa con spietata durezza il cambiamento dei valori della società in senso moderno (il libro è stato scritto fra il 1904 e il 1907), e lo fa ponendo al centro della sua attenzione non già il derelitto o l'emarginato, bensì il semplice uomo medio, il popolo comune che tutti i giorni riempie le strade e le case di Dublino, la sua città. I personaggi che egli descrive sono squallidi estratti della middle class di inizio secolo, che si muovono ciecamente nei gorghi di un'esistenza monotona, circolare, chiusa; agiscono solo all'interno delle regole della consuetudine, non sanno scegliere, non comprendono disegni più grandi della loro quotidianità, non provano passioni. Sono, a tutti gli effetti, morti.
I racconti spaziano ampiamente fra tutti gli aspetti della vita sociale della Dublino del tempo (politica, religione, morale, famiglia), ma il tema della morte è sempre presente, anche quando non trattato in maniera esplicita. Bastano cioè tre episodi su tutti, a mio avviso Eveline, Cenere e I morti, a lanciare trasversalmente sugli altri un'ombra macabra, e a fornire una chiave di lettura incontrovertibile.
La giovane Eveline, nel racconto omonimo, si trova di fronte a una difficile scelta. Schiacciata da una situazione familiare insostenibile, ha l'opportunità di fuggire in Argentina con il fidanzato, ma fallisce nel coglierla. Già piegata dalla paura di un mondo ignoto da affrontare (pensando al viaggio in mare si immagina in acqua mentre affoga), capitola miseramente davanti al senso di colpa verso la defunta madre. La nave parte con solo lui a bordo, Eveline non può far a meno di protrarre all'infinito la sicurezza datale dalla sua infelicità.
In Cenere (nella versione originale Clay, cioè creta) la situazione è forse ancora più esasperata. Maria, la protagonista, non è nemmeno capace di realizzare la pesantezza della sua condizione, quindi, a monte, la possibilità di una scelta non le si presenta nemmeno. In là con l'età ma non sposata, vive di una quotidianità di gesti sempre uguali, circondata solo dal tiepido affetto dei conoscenti. La sua vita esageratamente placida e semplice tradisce l'amara verità di un grave malessere esistenziale di cui l'abitudine serve solo come palliativo. Persa nella minuziosità delle più banali azioni (preparare il tè per le donne della casa di riposo in cui lavora, prendere il tram, comprare una torta per una festa), Maria cerca disperatamente di nascondere la sua incapacità congenita di affrontare la vita reale in maniera consapevole. Significativo che durante un tradizionale gioco della vigilia di Halloween, in cui bendati si sceglie un oggetto che rappresenta il proprio destino, tocchi per sbaglio un blocco di creta: la materia inanimata, morbida e plasmabile è il macabro emblema della sua intera esistenza.
I morti è il racconto più lungo e complesso dell'opera, tanti sono i piani di lettura su cui si sviluppa. Qui non solo il mondo dell'aldilà e dei vivi sono a stretto contatto, ma addirittura capovolti. Gabriel, un personaggio colto ma mediocre, colleziona una serie di fallimenti durante un capodanno in famiglia prima di assistere impotente allo sfacelo delle certezze di tutta una vita. Dopo la festa sua moglie Gretta si scioglie in lacrime ricordando una struggente canzone che qualcuno ha suonato durante la serata, alla quale ha legato un ricordo: il suo fidanzato di quando era ragazza, Michael, morto prematuramente. Gabriel, chiuso nel vizio di un matrimonio scontato e prevedibile, non può che essere impreparato a una tale rivelazione. Non sa come gestire e sopportare, oltre alla gelosia di saperla appartenuta a un altro uomo nel corso della vita, la beffa di vederla commossa dal ricordo di un defunto, consapevole che lui non è mai stato capace di emozionarla in ugual misura nel corso di un'intera vita insieme.
La sua reazione è disordinata. Realizza di non aver mai posseduto veramente il cuore della moglie, e prova rabbia e invidia per Michael che almeno morendo è stato capace laddove lui ha sempre fallito. Il paradosso è lacerante: Gabriel, con la sua vita senza passione, appartiene già al mondo dei defunti, mentre Michael è ancora vivo nei ricordi di Gretta anche dopo lunghi anni dalla sua dipartita.
Dopo questa epifania, che invero colpisce il lettore molto di più di quanto non colpisca il personaggio, l'immagine conclusiva della neve che cade su tutto l'universo, sottolineata dal chiasmo ripetitivo e dall'allitterazione di suoni dolci ("His soul swooned slowly as he heard the snow falling faintly through the universe and faintly falling"), è il sunto del significato di tutta l'opera. Il candore della fredda coltre che si posa tutto intorno accomuna le persone presenti e quelle passate, stringendole in una morsa comune. Così definitivamente marcato il concetto di una paralisi esistenziale senza uguali, il sipario si chiude su una luce oscura e piena di presagi.
Colpisce la sensibilità con cui Joyce scandaglia i meccanismi umani e risale alla fonte stessa dell'alienazione moderna. Un'opera fondamentale per la comprensione di un'epoca di cui siamo, nel bene e nel male, figli
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