Ok, mi metto comodo a scrivere una recensione piuttosto impegnativa. Avverto però che si tratta di una recensione doppia, e consiglio di leggerla un pezzo alla volta, non tutta insieme, se non dopo una breve pausa. Ed è un consiglio che d’ altronde rivolgo anche riguardo all’ascolto delle due opere.
Questo perchè si tratta di descrivere a parole due dei massimi capolavori che la musica classica orchestrale abbia conosciuto. Poi in questo album la prestazione della Metropolitan orchestra guidata da James Levine è a mio modesto parere impressionante per intensità e dinamica. Ma andiamo con ordine.
"Mussorgsky (Ravel): Pictures at an exhibition"
Questo lavoro fu scritto inizialmente da Modest Mussorgsky per solo pianoforte. Nessuno ancora oggi ha idea di come l'autore russo, uno dei più sottovalutati e sfortunati, abbia fatto a scrivere a metà ottocento una partitura (leggermente ritoccata da Rimsky Korsakov, per come ci è a noi giunta) tanto rivoluzionaria, sia ritmicamente che armonicamente. Infatti i quadri di un'esposizione saranno poi il punto di partenza per tutti i successivi sperimentatori di nuove soluzioni espressive pianistiche (debussy in primis). A questa partitura immensa si dedicò Maurice Ravel, autore di scuola francese della prima metà del '900, il quale senza cambiare una virgola delle note scritte, si concentrò piuttosto sulla resa orchestrale e sul colorito timbrico da "pennellare" per ottenere un'opera che non risentisse per niente di questa trasposizione, operazione certo non facile. Il risultato ed il successo di questo lavoro fu tale da oscurare tutti gli altri lavori del compositore francese (tanto che oggi di lui si conoscono solo i quadri ed il bolero, a torto). La furbizia di Ravel, secondo me, fu quella di costruire un perfetto ponte tra la tradizione impressionistica francese, caratterizzata dal fluire elegante di suoni e colori tenui, e la roboante carica timbrica e ritmica di chiara matrice russa.
E ciò è quello che possiamo apprezzare in "Pictures of an exhibition". Già nella promenade iniziano i brividi, con quell’intro (quel fraseggio armonico che poi si ripeterà più volte, ma sempre in maniera diversa) affidato alla tromba, che sembra arrivare da molto lontano a rapire le orecchie in un viaggio sonoro di valore unico. In “Gnomus” le atmosfere cupe hanno improvvisamente la meglio sull’overture e qui l’orchestra si esprime in tutta la sua potenza con possenti cambi di volume. Dopo una felicissima pausa in cui riascoltiamo il tema iniziale, sussurrato dai fiati, si passa a “il vecchio castello” e qui la carica impressionistica del brano ci fa immaginare uno di quei poderi, abbandonati in mezzo alle steppe della Prussia. Io non ho parole per descrivere questo lento andante. Ascoltatelo.
La bellezza della tonalità tardo-romantica si esprime in tutto il suo massimo splendore. Ancora una breve intermezzo e si passa a ”Tuileries”, che per pianoforte costituiva certamente uno dei frangenti più tecnici. Qui si sente l’influenza della scuola francese, con i legni in grande evidenza. “Bydlo” è una possente marcia, carica di pathos. Ancora grande resa orchestrale (somiglia un po’ all’orchestra di Tchaicovsky) e grande interpretazione di Levine. L’ennesima trasposizione del tema iniziale, sempre mutevole e stavolta drammatica, ci porta ad un balletto, con un inseguimento tra i fiati. Il risultato è impressionante: pezzo di grande difficoltà, dimostra come con il talento si possa rendere il virtuosismo leggero alle orecchie dell’ascoltatore.
“Samuel Goldenberg und Schmuyle“, con un introduzione d’archi potentissima, evolve poi in un andante in cui la tromba emula le gesta del piano di Mussorgsky. E poi di nuovo, quella sfuriata d’archi e il volume che si alza e la tromba che sembra volersi elevare al di sopra dell’orchestra. “Limoges” sfrutta appieno tutte le possibilità timbriche, ritmiche e tecniche (sentitevi il finale): si tratta di un climax, una fuga che sfocia senza soluzione di continuità nella successiva “Catacombae” … apocalittico l’intro per soli ottoni, di un sapore quasi medioevale il proseguio. “Con Mortuis in lingua morta” ha una drammaticità fortemente Tchaicovskiana, quasi da sinfonia patetica. Ma è solo uno scampolo di riflessione, perché poi ci si avvia verso la corsa orchestrale finale, con “La capanna su zampe di gallina” e qui Ravel ne combina davvero di tutti i colori (timbrici). Si sente la lezione di Stravinsky, oltre che quella di Debussy. Già il finale del pezzo per pianoforte era piuttosto complesso da eseguire, figuriamoci per un’ orchestra… Ed è così che si approda al brano di chiusura, “La grande porta di Kiev” , una celebrazione del fraseggio iniziale, ora urlata con la potenza di cento e più strumenti. Da ricordare a metà il pezzo con i rintocchi della campana a scandire il ritmo religioso, nel mentre tutti si preparano al finale, di un pathos e intensità indescrivibili, tra echi di ottoni, il fiorire di archi ed il gong che chiude questo circo delle meraviglie. Per concludere e descrivere il lavoro di Ravel, direi che questo compositore potrebbe essere definito come un poliglotta del linguaggio orchestrale, che sfugge ad una reale classificazione per la varietà di generi e scuole toccati. Tant’ è che di lì a poco avrebbe detto la sua sulla contaminazione del jazz nella musica classica (e siamo appena a inizio anni ’ 30).
“Stravinsky: Le Sacre du Printemps"
Immaginiamo di entrare in mezzo alla folla di astanti, in una tiepida serata parigina, alle porte del teatro dei campi elisi, il 29 maggio del 1913. Nella hall c’è gente che parla dimessa di argomenti di attualità, ma si nota una certa tensione. Non c’è entusiasmo nei confronti dello spettacolo che sta per essere inscenato. Si tratta del terzo mastodontico lavoro di Igor Stravinsky. Molti dopo “l’uccello di fuoco” l’avevano definito l’erede di Tchaicovsky. Tutti dopo Petrushka avevano ritirato l’offerta, consci del fatto che questo giovane allievo di Rimsky era stato in grado di sviluppare un linguaggio sonoro tutto suo. Ora sono tutti là. Prevenuti dalle recensioni negative dei migliori critici della capitale, infarciti dall’occhio più conservatore, mentre aspettano arcigni un fiasco già annunciato. L’accoglienza è fredda: il compositore russo fa il suo ingresso nel teatro sotto un sottilissimo scroscio di applausi. Siamo in un periodo di confusione: non si capisce se la musica debba muovere i suoi passi verso le avanguardie polifoniche e le contaminazioni più disparate, oppure debba nascondersi dietro il velo della scuola tonale russa e della retorica, ormai abusata, tardo-romantica.
Bene. Dopo l’uscita di quest’opera la musica deciderà dove andare. E mentre i primi fraseggi dei fiati fanno capolino nelle orecchie degli ascoltatori renitenti, sembra di osservare un quadro di Kandinsky, con le sue linee irregolari, i suoi colori stridenti, le sue immagini convulse. Un ritmo spezzato. Ed il ritmo dell’opera viene veramente spezzato dai fischi, dagli insulti, dagli applausi canzonatori di chi non è pronto ad ascoltare. L’opera viene bocciata dal volgo, anche quello più colto. I musicisti non riescono a continuare la loro esecuzione, si bloccano. Fissano increduli gli spettatori inferociti. Stravinsky esce dalla sala furibondo. Dirà più tardi, con un certo orgoglio presuntuoso che gli si confaceva: “Noi compositori abbiamo un dovere morale nei confronti della musica: crearla”. Egli creò infatti questi “Quadri della Russia in due parti”, dal nulla.
Le influenze della scuola parigina, prima presenti nelle sue due precedenti opere, ora sono solo mere citazioni. La verità è che "Le Sacre" ha un suo linguaggio, una sua grammatica, una sua sintassi, una sua semantica, unica nel suo genere. Tutti elementi nuovi a cui Stravinsky riesce a dare un senso, profondissimo. Il senso è quello di descrivere la ruralità della campagna russa, costellata di miti, di demoni, di riti pagani, di misteri, di sangue. Ed è così che egli esplora l’universo musicale della tradizione russa, i canti, le polifonie, e lo eleva a linguaggio orchestrale. Ed è così che per descrivere la danza forsennata di due vergini, destinate alla morte, Stravinsky disegna dei ritmi a tratti tribali, mutevoli, degli scampoli di contrappunto che improvvisamente si bloccano per lasciare spazio ad altre fiamme ritmiche, ad altre cellule disarmoniche. Gli archi sono svuotati del loro ruolo tonale, e vengono utilizzati in funzione percussiva. Gli ottoni ed i fiati se mescolano, si avvicinano e si riallontanano, come nell’introduzione al primo atto, in cui il fagotto striscia sinuoso su una tonalità, per poi abbandonarla e lasciarsi trasportare dagli altri fiati che subentrano di nascosto.
Che dire poi del finale? Quel volo straziato e stridente che si interrompe improvvisamente per decretare la fine dell’opera. Ed in mezzo ci sono quegli episodi a tratti violenti, a tratti anticipatori quasi di una psichedelia e di una stasi strumentale allucinatoria. E se non avete compreso il senso della descrizione ascoltatevi “l’ introduzione al secondo atto”. Oppure quando sembrano aprirsi le porte dell’inferno, con quel rullo di tamburi e quello strombazzare impazzito di ottoni, nella “danza della terra” . E ancora: “le danze degli adolescenti”, con gli archi a martellare quasi stupidamente l’aria, mentre le pentatoniche rubate alla tradizione tonale contadina fluiscono liberamente, liberandosi da una qualsiasi armonia tonale precostituita.
“La glorificazione dell’eletta”, forse il pezzo più violento, in cui l’orchestra diventa onomatopeica. “L’ azione rituale degli avi” in cui Stravinsky sembra voler ricreare la paura che si scorge negli occhi dei contadini, tutte quelle angosce ataviche che creano un circolo dentro la nostra mente e ci fanno compiere a volte gesti imbarazzanti e violenti, riti oscuri e dissacratori. “La sagra della primavera” è la prima vera opera avanguardistica del ‘900, e forse la più riuscita. Ma non sarà facile per nessuno ascoltarla, specialmente le prime volte. Esige un’attenzione simile a quella che dedichereste ad un film di Kubrick. Esige pazienza e cura. Dopodiché la amerete. O la odierete.
Come in quella sera tiepida, al teatro dei campi elisi, affianco ad un signore alto ed occhialuto che si alza ed esclama: “Questo è un labirinto di suoni sconnessi!” .
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