Nel florido catalogo, che è andato formandosi dalla seconda metà del Novecento ad oggi, della musica di stampo tradizionale e cantautoriale nordamericano (ricordiamoci, di influenza in parte gaelica!), tra chi è riuscito, già dagli anni '60-'70, a imporsi sulle scene più titolate (Bob Dylan, Neil Young, Joni Mitchell, Leonard Cohen, Simon and Garfunkel, The Byrds, ecc.) e chi è caduto nel dimenticatoio o si è guadagnato uno stretto seguito, c'è uno spazio gigantesco. Un oceano di nomi, di volti, di voci, di chitarre o pianoforti, di armoniche o interi apparati orchestrali, di anime fatte di luci e ombre.
Artisti come Phil Ochs, Jackson C. Frank, Gordon Lightfoot, Buffy Sainte-Marie, Townes Van Zandt, John Prine, Carole King e Jim Croce, e folksingers più sui generis, borderline, su tutti Tim Buckley, Van Dyke Parks, Laura Nyro e Randy Newman, sono stati in grado di alzare la voce quel tanto da essere ricordati da un pubblico non già di poche anime.
Ma all'infuori di tali personalità più o meno forti, coesistevano (e alcuni coesistono ancora oggi) musicisti che, pur prendendo dalla tradizione, rielaborandola, e tracciando le proprie linee in maniera personale e spesso originale, come facevano i loro più illustri colleghi, tuttavia non sono stati captati dai radar, per loro scelta o per "un semplice scherzo del destino". Tra questi, i texani Mickey Newbury e Terry Allen, David Ackles (dall'Illinois) e Hoyt Axton (dall'Oklahoma). Manca ancora qualcuno, però! Manca un conterraneo di Axton, un mite figlio della zona più settentrionale delle vecchie regioni confederate, tale James Talley.

Venuto alla luce nel 1944 a Tulsa, ma tirato su, nei suoi primi anni di vita, in un'area non incorporata dello stesso Arkansas, a Mehan nella Payne County, James Talley si sposta con la famiglia prima nello Stato di Washington, in seguito nel New Mexico. Si laurea ad Albuquerque ed è lì che, in seguito, incontra Pete Seeger, il quale lo incoraggerà a scrivere canzoni che assorbano la cultura del Sud-Est.
Nel '68 si trasferisce nel Tennessee, precisamente a Nashville, Mecca della musica country. Nel 1973, all'interno degli Hound's Ear Studios di Franklin, a 30 km circa dalla capitale dello Stato, registra il suo primo lavoro, un album di culto che diventerà, per la sua pregnanza e per la sua unione di più elementi in una soluzione omogenea e non troppo diluita, il suo fiore all'occhiello, il suo non plus ultra. All'LP viene dato un titolo curioso: "Got No Bread, No Milk, No Money, But We Sure Got a Lot of Love". Se, come si evince, tale denominazione si presenta estesa, lo stesso non si può dire del contenuto: il disco, nella sua versione originale (verrà ristampato nel 2006 in un'edizione speciale, con un'intervista di Mike Hanes, del 5 maggio 1975, sul secondo CD), ha un minutaggio di poco più di mezz'ora, le canzoni sono molto brevi. Tuttavia, non tragga in inganno un elemento del genere, perché la pregnanza contenutistica, le contaminazioni, rendono l'insieme alquanto soddisfacente e credibile!
Pubblicato nel 1975, il 33 giri d'esordio di Talley non è certo parco a livello di strumentistica. Tanti i musicisti coinvolti nel progetto, grande l'affiatamento. In questi solchi si sentono tre diverse chitarre acustiche, altrettante chitarre elettriche, una steel guitar, la chitarra Dobro, il mandolino, due bassi, insomma è un trionfo degli strumenti a corda. C'è anche spazio per il violino di Lisa Silver. Vi si aggiungono la batteria e le percussioni (addirittura dei cucchiai), nonché strumenti a fiato appartenenti alla classicità jazz: tuba (Ralph Childs), clarinetto (Dave Poe) e tromba (Tommy Smith). Rick Durrett si alterna al piano, all'organo e alla fisarmonica. Per essere un disco di country blues, lo spettro è piuttosto ampio. A coordinare il tutto, lo stesso Talley, che fa da produttore, si fa accompagnare da Richie Cicero, Lee Hazen e Tony Lyons agli arrangiamenti.

"Got No Bread, No Milk, No Money, But We Sure Got a Lot of Love" viene preso in carico dalla Capitol Records, che però non fa adeguata pubblicità, dando come risultato uno scarso numero di vendite. Tuttavia, a Talley, figura discreta e priva di smanie di successo, importa il giusto (con la Capitol pubblicherà altri tre classici a venire). A lui basta suonare, e la sincerità di intenti si avverte dopo qualche secondo dall'inizio dell'ascolto. Quello che "salta all'orecchio", per fare una boutade, sono una grande capacità e verve canora da parte di Talley, che nell'ugola ha inscritto un retroterra bluegrass, ma senza le banalità che un certo standard di genere potrebbe implicare.
Il primo brano in scaletta, con il suo incedere pimpante, non lascia presagire la malinconia del secondo, la titletrack, che lo lega in un'ideale parentela al già citato Townes Van Zandt, anch'egli cantautore di culto dalla profonda sensibilità e dallo spiccato genio compositivo. Il timbro vocale di Talley si accompagna a un pregevole e magnetico riff di chitarra acustica, con una semplicità e una genuinità non scontate. Il suono è cristallino, pulito, ma non fine a sé stesso.
Più si procede nell'ascolto, più l'eclettismo e il brio dolceamaro di tutto l'ensemble si fanno lampanti: "Red River Memory" continua il corso dettato dalla title-track; lo strumentale "Big Taters in the Sandy Lane" consente a Lisa Silver di lanciarsi in uno stupendo solo di violino; "No Opener Needed", dal ritornello epico con background vocals di indubbio pregio, è un commovente lamento; "Mehan, Oklahoma" costituisce un'ode accorata, e non melensa, alla comunità in cui ha vissuto, da che era ancora in fasce; la sonnolenta e ammaliante "Take Me to the Country"; la bucolica "Red River Reprise", delizioso strumentale a chiudere il cerchio, con il finire dei grilli che apre a una chitarra acustica spoglia, che a sua volta cede il testimone al violino.

Negli anni, Talley ha catalizzato intorno a sé un degnissimo seguito di appassionati, pur non elevandosi mai allo status di cantautore di punta. I suoi primi dischi, compreso l'oggetto della presente disamina, sono dei classici per una nicchia che potrebbe ampliarsi progressivamente, senza nulla togliere al fascino della figura di riferimento.
Diversi addetti ai lavori, suoi colleghi, hanno rieseguito le sue canzoni, su tutti Johnny Cash e un insospettabile (ma neanche troppo!) Moby, che dalla tradizione, quella bella, pesca molto. Ma non solo! Persino Jimmy Carter, 39esimo presidente degli Stati Uniti (dal 1977 al 1981), è un suo grande estimatore, e ha avuto il piacere e l'onore che lo stesso Talley suonasse per lui.
Da un po' di anni inattivo a livello discografico, Talley si è sistemato in pianta stabile a Nashville, dove ha la sua etichetta indipendente, la Cimarron Records, dal 1999. Sul suo sito ufficiale è disponibile ad accogliere eventuali richieste per delle performance da fare nei luoghi proposti dai fan o dagli addetti ai lavori. Nell'arco della sua carriera non si è limitato agli USA, ma ha suonato anche in Europa (non si sa come, ma nel 2002 ha suonato in una scuola media a Chiari, in provincia di Brescia!).

Voto: 8,5/10

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