Scopiazzando una riuscita analogia di Vitaliano Trevisan, secondo cui gli scrittori sono come gli agricoltori, allora possiamo dire che l'agricoltura è come la letteratura. E viceversa. Una materia nella quale si teorizza molto, si esprimono molti esperti o chi ne assume gli atteggiamenti, ma dove la pratica rimane qualcosa di potentemente distante, irregolare e soggettivo.
Ogni luogo ha le sue culture, i suoi metodi e non tutto fiorisce nelle stesse zone. Tu lavori in un modo, il tuo vicino in un altro e così via.
Poi arrivano gli addetti ai lavori: ma come, non si fa così, guarda che recentemente hanno scoperto. Insomma ci siamo capiti.

Orientarsi è difficile, ed è sempre meglio non lasciarsi tirare troppo da quelle che sono le nuove tendenze.
In un panorama così come l'ho disegnato, libri come "Come Funzionano I Romanzi" (James Wood, Mondadori 2010) sono una vera soddisfazione.

Quello di Wood non è di quei libri per miracolai che sperano di diventare Joyce o King con volumi tipo "Come Si Scrive" oppure "Abc Dello Scrittore".
Non è nemmeno un libro eccessivamente teorico di critica e narratologia.
E' un'opera che si propone di "porre domande teoriche ma offrire risposte pratiche o, per dirla in altri termini, rivolga domande da critico ma fornisca risposte da scrittore."

Con un linguaggio dallo stile brillante e colloquiale Wood si riallaccia alla tradizione critica inglese (Edward Morgan Forster, Henry James) ben diversa dalle correnti critiche del Formalismo russo e dello strutturalismo francese, riuscendo più apprezzabile.
Personalmente l'ho trovato più immediato rispetto a libri come "L'Officina Del Racconto" di Angelo Marchese, benché quest'ultimo sia molto più esaustivo. La differenza sta nelle intenzioni dell'autore: Marchese si propone di sintetizzare la storia delle teorie sulla narratività, e, fornire adeguati e complessi strumenti d'indagine, mentre Wood ci mostra l'analisi già bella e fatta.
Il libro descrive progressivamente l'evoluzione del concetto di "Romanzo Moderno" da quello che lui riconosce come il capostipite: Flaubert, evidenziandone e riconoscendone caratteristiche e qualità.

Esemplifica le differenze tra le opere del passato con quelle più recenti (avvalendosi di numerose citazioni: Austen, Wallace, Joyce; fino a Svevo e Pavese) descrivendoci, ad esempio, la nascita della coscienza nelle opere letterarie. Ci avete mai fatto caso? I personaggi delle parabole, dei racconti ebraici, della bibbia, non pensano mai. Noi osserviamo con gli occhi di Dio, ma non ne conosciamo i pensieri, vediamo solo le singole azioni. Anche il tempo scorre in modo diverso: a scatti regolari; senza rallentamenti o progressioni rapide.
Nei romanzi moderni, ma già dalle opere Shakespeare, come ci fa notare Wood, tutto questo cambia. Si ha un'evoluzione. Pensate alle riflessioni a voce alta dei personaggi teatrali (Soliloquio), fino ai flussi di coscienza.

Un delle caratteristiche analizzate da Wood, e che ha assunto valore con il Romanzo Moderno, è la cura certosina del dettaglio. L'importanza di saper selezionare  dettagli da inserire nella narrazione. Il particolare: che svela la sapienza artigianale ma che spesso sfocia nell'arido estetismo. Ma occorre distinguere:  questo non significa che Flaubert abbia inventato la cura per il dettaglio. Flaubert è stato il primo a istituzionalizzare il concetto riguardo all'importanza del dettaglio. Ma non ha inventato nulla.
In precedenza, prima del XIX secolo, si prediligeva un'imitazione dei classici, e allo scrittore non era richiesto di essere anche un buon osservatore. Nonostante questo però esistono numerosi, interessanti, precedenti. Prendiamo ad esempio Henry Fielding, che nel suo "Joseph Andrews" racconta, descrivendo una rissa se non ricordo male, delle incisioni di scene di guerra sul bastone del protagonista. Un dettaglio per l'appunto, tanto eccentrico e reale allo stesso tempo, che riesce a colpire la nostra immaginazione: che significa? Che è di grandi dimensioni? Che è lavorato finemente? Che l'artigiano è stato molto bravo? Tutto questo non c'è rivelato, ma rende il dettaglio talmente forte che magari col passare del tempo dimentichiamo interi capitoli (a me è capitato così), ma non questi particolari, che Wood, usando una definizione del teologo medievale Duns Scoto riadattata dal poeta Gerard Manley Hopkins, chiama "Ecceità".

"Ecceità" sono quei particolari inseriti dall'autore per dare un elemento concreto alla narrazione. Che renda tangibile l'astratto*.
Come ci spiega Wood l'ecceità può anche essere un aneddoto, qualcosa di bizzarro e insieme curioso. Prendiamo ad esempio le bugie iperboliche che millanta Chlestakov, il protagonista de "L'ispettore Generale", quando racconta che fa arrivare la minestra calda addirittura da Parigi. Comica e assurda insieme questa battuta vive più a lungo nella nostra memoria rispetto a magari i nomi dei co-protagonisti o di tante altre cose che dimentichiamo. Ecco un altro caso di ecceità.

D'altro canto però, questa ricerca di particolari e la loro presenza sulla pagina (da Balzac e come detto sopra, razionalizzata da Flaubert) in alcuni casi finisce col diventare opprimente, debordante, noiosa e quindi, inutile. Basta pensare alle dettagliatissime descrizioni, tipicamente ottocentesche, e deplorate dai modernisti. Altro esempio: nonostante Zola se ne complimentasse, troviamo l'eccesso di dettagli spigoloso e rigido nei romanzi dei Fratelli Goncourt, che riprendevano pedestremente e senza criterio il metodo di Balzac.

Oltre a quelli che vi ho riassunto, gli argomenti trattati sono: "Il Personaggio", "Immedesimazione e Complessità", "Linguaggio", "Dialogo" e diversi altri.
Il libro è breve e chiaro; Wood esprime anche il suo giudizio riguardo all'evoluzione della narrativa, che descrive come un rinnovarsi di convenzioni per servire la rappresentazione di artificio e verità.
Non ho detto molto su Wood. Lui è un critico del New Yorker, e non è necessario andare molto a fondo, perché quando un libro è bello chi se ne frega dell'autore.
Se per voi questo libro non è abbastanza allora potete passare a Bourneuf Roland, e se anche lui non è abbastanza, allora potreste iniziare a pensare a scriverlo voi, un libro.

 

*"Li otteneva con pochi tratti, con una certa velocità, sommando dettagli insignificanti fino formare una figura incredibilmente reale: chi legge fa la strana esperienza di sapere pochissimo di un personaggio e simultaneamente di sapere tutto, di lui e del suo mondo. Devo a Dario Voltolini la più esatta descrizione di una simile esperienza: chiudi gli occhi, tocchi con un dito la pelle della balena, e vedi la balena tutta. Dai uno sguardo veloce a due americani che fanno il barbecue e vedi l'America. Era un trucco che riusciva praticamente solo a lui." Alessandro Baricco
Che cosa scriveva Carver prima di essere Carver. Repubblica - 17 marzo 2009
Oppure si potrebbe citare William Hogarth, secondo il quale per disegnare un volto possono bastare trecento tratti di matita così come tre. E' chiaro, che la questione e l'importanza dei dettagli è sempre stata oggetto di indagine e interesse, e la capacità di saperne disporre è indice della bravura di uno scrittore.

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