È "Qualcosa su Alice" (Něco z Alenky) il titolo originale, dove Švankmajer gioca quasi per caso, e condivide sconsiderato l'essenza di questa sparizione. Gioca distaccato e impersonale, come noi subiamo il gioco dai sussurratori, non poca la differenza. Prende pezzi di un puzzle impossibile da completare e ce lo risolve addirittura con uno strumento limitato come è il cinema. E quando uno, usando la stop-motion, mistifica la trasfigurazione del non pensiero, dove il "tutto accade" prende il posto di liberi arbitrî depistanti, possiamo cibarci di Epifania.

Non c'è rivisitazione ma catarsi del lavoro di Carroll. Caca fuori dal vaso, abbondantemente. Mette in fila, in un tornado psichico nauseante, l'essenza che Lewis rivelava sotto forma di favola macinante reincarnazioni compulsive, attraverso segatura che si sostituisce alla polvere di stelle. Non c'è crescita senza i "mal di pancia" dati dagli spasmi della palestra della vita. Il simbolismo diventa il mezzo di arrivare al risultato di mostrare l'invisibile dove il fine bascula senza appigli. Ha esagerato ma ci voleva finalmente, eccome ci voleva. In un'assenza spietata stimola in ognuno di noi lo scoperchiamento di sofferenze coscienti.

Che dire poi di quelle accumulazioni, accelerazioni, triturazioni, destrutturazioni, putrefazioni, se non che ci fanno da collegamento con lo scandire la nostra eternità passata e futura, fondendo il ricordo con l'aspettativa, gettandoci nell'arena dell'immediato che mischia la veglia con l'onirico, la materia col rarefatto, la carne con l'anima. E il sogno si salda con la realtà razionale e tenta di dare un passaggio in assenza di pensiero allo shock della rivelazione che non siamo questo corpo ma siamo qui. E tagliuzza tutti quegli universi dentro e fuori di noi che ci trapassano e noi trapassiamo loro in una concatenazione di una noia infinita che sforbicia eterni ritorni.

E andiamo a trovare in quelle stanze, in quei cassetti, in quelle gallerie e caverne, gigantografie e miniaturizzazioni dei riflessi della nostra "carrozza", del tempo scandito a orologio fermo del bianconiglio, della psiche riempita di subliminale dal cappellaio matto e confessata dalla lepre marzolina, portando l'inganno della vita alla corte reale per un ballo in maschera di rappresentazione finale della nostra carcassa che incontra il nostro cadavere giocandoci a carte. Ed anche qui la forza dell'infanzia è reiterata per assorbire le enormità di un'evoluzione inevitabile dove constatiamo che il corvo è lo scrittoio, e basta solo questo per essere "unità".

Quante battaglie per raggiungere la solitudine del Paradiso.

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