La parola "Pop" rappresenta per un cospicua fetta sociale di ascoltatori (alternativi, schizzinosi/choosy, radical chic, eruditi...) il tremendo sostantivo che si incarna negli aborti musicali più terrificanti, nella recrudescenza fatta a dischietto e/o a file del morbo capitalista-commerciale; il Pop evoca tormentoni disgustosi, spettacoli osceni, stonature imbarazzanti, starlette iper coccolate dal dubbio talento, major arraffasoldi, stravaganti maratone per brecciare la numero uno in classifica, mise succinte, scandaletti vari, scopiazzature a cascata e così via. In questo opinabile gruppetto di riduzionismi e di stereotipi si chiude il cerchio qualitativo della popular music, cerchio che peraltro viene minimizzato ad un invisibile puntino sulla cartina tornasole del suono. Eppure non tutto quello che offre l'industria discografica di massa è pattume commerciale per discoteche, club mediterranée e sagre della porchetta: basta addentrarsi nel fior fiore del cosiddetto "pop di qualità" - una sorta di miraggio utopistico a detta degli irrecuperabili pessimisti, scartabellare negli archivi, girare il web a caccia di artisti e produzioni di nicchia e, naturalmente, testarli sui propri padiglioni. Proprio dentro queste semplici mosse sta la meglio modalità di confutazione dell'equazione postulatoria pop=banalità, accostamento del tutto errato e infelice.

Un esempio concreto e tangibile della teoria sopra illustrata? Janelle Monáe. Classe 1985, giovane e graziosa, piccola e affascinante, un visino che ricorda la Janet Jackson ventenne ai tempi di Control, Janelle è approdata di recente sul mercato discografico: l'album di debutto, The ArchAndroid (cui la recensione è dedicata) risale a due anni fa, tuttavia il suo nome balza agli onore della cronaca mainstream per il fortunatissimo contributo vocale e visivo al brano indie-rock dei Fun. We Are Young, attualmente in pianta stabile nelle charts di mezzo mondo dopo una florida primavera comodamente trascorsa sul morbido podio della Billboard Hot 100. Eppure la Monáe, nonostante i milioni intascati con quel benedetto singolo, andrebbe maggiormente apprezzata - e lodata - per quel The ArchAndroid che, a mio dire, potrebbe essere assunto a nuova frontiera del già rimarcato "pop di classe", lo space shuttle fatto a tracklist verso il pianeta del mainstream non artificioso e raffazzonato, il traguardo delle major lungimiranti e più attente alla qualità del prodotto che all'atelier dove è stato confezionato l'abito per la cover, il booklet e i cartelloni promozionali. The ArchAndroid è probabilmente il calderone sonoro più ricco e denso degli ultimi anni, la miscela quasi perfetta di toni, umori, sapori, ispirazioni e suggestioni: un autentico panta rei di classicismo melodico-strumentale e di tribalità danzereccia, di funky rock e di avvolgente sensualità R&B, di pop filo indie e di hip hop birichino peraltro arricchito da collaborazioni illustri.

Particolarissime e fulcro del progetto sono in primis le due Suite Overture (II e III), vere e proprie composizioni classico-orchestrali di reminiscenza e ispirazione quasi classico-romantiche, sequel dell'EP Metropolis: Suite I (The Chase); aprono dunque le danze in salsa moderna Dance Or Die, curioso e anomalo miscuglio tribal-hip hop con sfumature synth, il rock'n'roll jazzeggiante alla Sixties di Faster e l'allegra Locked Inside, sorta di tributo disco-funky ai Jacksons e ai tempi aurei del Motown-style. Seguono senza soluzione di continuità il soul-R&B di Cold War, la calorosa atmosfera gyspy in Oh Maker, la scherzosa calata nel punk-rock di Come Alive (The War Of The Roses) - urletti alla Guns'n'Roses (appunto!) compresi - la digressione piano-lounge à la Alicia Keys per Neon Valley Street e l'enigmatico tribal-ambient di Say You'll Go. Menzione altresì per Tighrope, gustoso brano gospel-hip hop funkeggiante performato con Big Boi dell'accoppiata Outkast, il rock ballerino simil Prince di Make The Bus e il mix etnico-corale per Sir Greendown.

Vero e proprio concept album incentrato sull'eclettismo della Monáe a 360°, sottile linea rossa fra tribalità, futurismo e contemporaneità, The ArchAndroid è il vaso di Pandora del pop multisfaccettato, un grandioso progetto artistico-creativo (e un pizzico poetico) mainstream appoggiato da un team manageriale lungimirante e arguto. Eccovi dunque, sopra un bel vassoio di cristallo, la naturale dimostrazione che la commercialità in musica non sforna unicamente aborti da balera riproducibili e replicabili sino allo sfinimento e alla conseguente morte per arresto cerebrale e/o intellettivo. Provare, anzi ascoltare, per credere e gettare definitvamente nello sciacquone quel ridicolo scetticismo alla San Tommaso.

Janelle Monáe, The ArchAndroid

Suite II Overture - Dance or Die - Faster - Locked Inside - Sir Greendown - Cold War - Tightrope - Neon Gumbo - Oh Maker - Come Alive (The War of The Roses) - Mushrooms and Roses - Suite III Overture - Neon Valley Street - Make the Bus - Wondaland - 57821 - Say You'll Go - BabopBye Ya.

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